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Gilgames e la pianta dell'irrequietezza
Nell'Epopea di Gilgames, poema epico mesopotamico di cui le prime tracce sembrano risalire alla metà del Il Millennio a.C., il dispotico re di Uruk, di origini semi-divine, disperato per la morte dell'amico Enkidu, parte alla ricerca della "Pianta della Vita".
Ma, secondo alcuni studiosi, il nome di quell'albero magico andrebbe più correttamente tradotto come "pianta dell'irrequietezza", perchè capace di ridare giovinezza, salute, e vigore sessuale agli anziani.
Dopo molte peripezie l'eroe raggiunge il vecchio Utanapishtim, versione babilonese di Noè: unico sopravvissuto al Diluvio Universale.
L'uomo è stato reso immortale dagli dei e ora vive isolato in un luogo circondato da acque mortifere.
Utanapishtim conosce l'esistenza di una pianta magica, che si trova in fondo al mare:
"Vi è una pianta le cui radici sono simili a un rovo, le cui spine, come quelle di una rosa, pungeranno le tue mani; se tu puoi raggiungere tale pianta e prenderla nelle tue mani...".
Purtroppo non sappiamo cosa promettesse esattamente quella pianta misteriosa, ma Gilgames si tuffa e, con un peso legato ai piedi, raggiunge gli abissi dove riesce a strapparne un rametto.
Mentre fa ritorno al suo regno, però, un serpente ruba il prezioso bottino e, dopo aver mutato pelle, fugge via ringiovanito, lasciando l'eroe disperato e consapevole del destino mortale dell'umanità, a cui, come Prometeo, egli aveva sperato di donare una scintilla divina.
E' questa una delle più antiche testimonianze del valore simbolico attribuito in ogni cultura ai sempreverdi, vegetali capaci di sopravvivere al gelo e all'oscurità e di superare la ruota del tempo, che inverte il suo giro al solstizio d'inverno del 21 dicembre, quando nell'emisfero settentrionale cadono il giorno più corto e la notte più lunga dell'anno.
Da questo momento in poi la luce torna a guadagnare spazio sul'oscurità, e il sole malato riprende forza e vigore, pronto a riversare la sua energia nei raccolti.

Continua...



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