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Racconti di Natale

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    Gabriel-1
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    Merlino
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    00 24/11/2009 18:03



    Letteratura di Natale.


    Tema Natale: da "UN CANTO DI NATALE"
    Brano di Charles Dickens
    … Corse alla finestra, l'aprì e sporse fuori la testa; niente nebbia, niente bruma; una giornata chiara, luminosa, gioviale, stimolante, fredda; un freddo che frustava il sangue e metteva voglia di ballare; un sole d'oro, un cielo incantevole; aria fresca e dolce; campane gioiose. Oh, splendido, splendido!
    "Che giorno è oggi?", gridò Scrooge, verso la strada, a un ragazzo vestito a festa, che forse si era fermato proprio per guardare lui.

    "Eh...?", rispose il ragazzo, con tutto lo stupore di cui era capace.
    "Che giorno è oggi, mio bel figliolo?", chiese Scrooge.
    "oggi...", replicò il ragazzo, "ma come? È Natale!"
    "È Natale", disse Scrooge a se stesso. "Non l'ho lasciato passare. Gli spiriti hanno fatto tutto in una notte sola. Possono fare qualunque cosa vogliono, naturalmente; naturalmente, possono fare qualunque cosa vogliono!" "Senti, ragazzino."
    "Sì", rispose il ragazzo.
    "Sei un ragazzino intelligente", disse Scrooge, "un ragazzino straordinario. Sai se hanno venduto quel tacchino che c'era appeso in mostra alla bottega? Non il tacchino piccolo, ma quello grosso."
    "Quale, quello grosso come me?", rispose il ragazzino.
    " - Che ragazzino delizioso! E un piacere parlare con lui. - Sì, figliolo mio."
    "C'è ancora appeso adesso", replicò il ragazzo.
    "C'è", disse Scrooge. "Va' a comperarlo."
    "È matto!", rispose il ragazzo.
    "No, no", disse Scrooge. "Va' a comperarlo, e di che lo portino qui, perché possa dare l'indirizzo dove deve essere mandato. Ritorna col commesso e ti darò uno scellino; ritorna con lui in meno di cinque minuti e ti darò mezza corona."

    Il ragazzo partì come una palla di fucile; e chi avesse potuto far partire una palla con una velocità pari a metà della sua avrebbe dovuto avere la mano ben ferma sul grilletto.
    "Lo voglio mandare a Bob Cratchit", mormorò Scrooge, fregandosi le mani e scoppiando in una risata. "Non saprà chi è che glielo ha mandato. E grande il doppio di Tiny Tim. Nessuno ha mai fatto uno scherzo così ben riuscito come quello di mandare quel tacchino a Bob."
    La calligrafia con la quale scrisse l'indirizzo non era molto ferma; tuttavia, in un modo o nell'altro, lo scrisse, poi scese giù ad aprire la porta di strada per trovarsi pronto all'arrivo del commesso del pollaiolo. Mentre stava sulla porta, aspettandolo, gli cadde sott'occhio il batacchio.
    "A questo vorrò bene finché vivo", gridò Scrooge, accarezzandolo con le mani. "E dire che prima lo avevo appena guardato! Che espressione onesta c'è in quella faccia! E un batacchio magnifico. Ma ecco il tacchino. Hello, come state? Buon Natale!"
    Quello era un tacchino! E impossibile che quell'uccello fosse mai stato in piedi. Le zampe gli si sarebbero piegate sotto in un minuto, come bastoncini di ceralacca.
    "Ma è impossibile portarlo fino a Camden Town. Bisogna che prendiate una carrozza."

    Il risolino col quale pronunciò queste parole, e quello col quale pagò il tacchino, e quello col quale pagò la carrozza, e quello col quale ricompensò il ragazzo, furono superati soltanto da quello col quale tornò a sedersi senza fiato sulla sua sedia, continuando a ridere finché non gli venne da piangere.
    Farsi la barba non fu cosa facile perché la mano continuava a tremargli molto; e farsi la barba è una cosa che richiede attenzione anche quando uno, facendosela, non si mette a ballare; pure, se si fosse tagliato la punta del naso, ci avrebbe messo sopra un pezzetto di cerotto e sarebbe stato perfettamente soddisfatto lo stesso.

    Si vestì dei suoi abiti migliori, e finalmente uscì in strada. In questo momento la gente stava uscendo dalle case, così come egli l'aveva vista in compagnia dello Spettro del Natale Presente. E Scrooge, camminando con le mani dietro la schiena, guardava tutti quanti con un sorriso compiaciuto. Per dirla in breve, aveva l’aria così irresistibilmente piacevole che tre o quattro tipi di buon umore dissero "buon giorno, signore, buon Natale", e Scrooge disse spesso, più tardi, che di tutti i suoni gioiosi che egli aveva mai udito, quelli al suo orecchio erano stati i più gioiosi.
    Non aveva fatto molta strada, quando vide venirgli incontro quel signore imponente che il giorno prima era entrato nel suo ufficio dicendo: "La ditta Scrooge e Marley, credo". Sentì un colpo al cuore nel pensare all'occhiata che gli avrebbe dato il vecchio signore nel momento in cui si fossero incontrati; ma conosceva ormai quale strada gli si apriva diritta dinanzi e la prese.
    "Caro signore", disse Scrooge, affrettando il passo, e prendendo il vecchio per ambe le mani, "come state? Spero che abbiate avuto successo ieri. E stato molto gentile da parte vostra. Buon Natale, signore!"
    "Il signor Scrooge?"
    "Sì", disse Scrooge: "questo è il mio nome, e ho paura che non vi riesca molto gradito. Permettetemi di chiedervi scusa, e vogliate avere la bontà... " e qui Scrooge gli sussurrò qualcosa all'orecchio.
    "Signore Iddio!", gridò il signore, come se gli fosse stato mozzato il fiato. "Mio caro signor Scrooge, parlate sul serio?"
    "Per favore", disse Scrooge, "neanche un soldo di meno. In questa somma, vi assicuro, sono compresi molti arretrati. Volete farmi questo favore?"
    "Ma, caro signore", disse l'altro, stringendogli la mano, "non so che cosa dire di fronte a una simile munifi..."
    "Non dite niente, vi prego", replicò Scrooge. "Venite a trovarmi. Verrete a trovarmi?"
    "Ma certo", esclamò il vecchio signore, ed era chiaro che diceva sul serio.
    "Grazie", disse Scrooge, "vi sono molto obbligato. Vi ringrazio mille volte. Dio vi benedica."

    Si recò in chiesa, passeggiò per le strade, guardò la gente che si affrettava in tutte le direzioni, accarezzò bambini sulla testa, rivolse la parola ai mendicanti, guardò dentro le cucine delle case e dentro le finestre, e trovò che tutto quanto gli procurava piacere. Non aveva mai sognato che una passeggiata, che una cosa qualunque potesse dargli tanta felicità. Nel pomeriggio si diresse verso la casa di suo nipote.
    Passò e ripassò davanti alla porta una dozzina di volte, prima di avere il coraggio di andar su e bussare. Finalmente si decise e lo fece.
    "E in casa il vostro padrone, mia cara?", disse Scrooge alla domestica. Ragazza graziosa, davvero!
    "Sì, signore."
    "Dov'è, amor mio?", disse Scrooge.
    "E in sala da pranzo, insieme con la signora. Vi accompagno di sopra, col vostro permesso."
    "Grazie, lui mi conosce", disse Scrooge, che aveva già la mano sulla maniglia della sala da pranzo. "Entrerò qui, mia cara."
    Fece girare la maniglia pian piano, e si affacciò alla porta semiaperta. Stavano guardando la tavola apparecchiata con un gran lusso, perché i padroni di casa, quando sono giovani, sono sempre nervosi su questo punto e vogliono esser sicuri che tutto sia in perfetto ordine.
    "Fred!", disse Scrooge.
    Signore! come trasalì la sua nipote acquisita! Per un attimo Scrooge si era scordato che c'era anche lei, seduta in un angolo, col panchettino sotto i piedi; altrimenti non lo avrebbe fatto di certo.
    "Ma come, benedetto Iddio", gridò Fred, "chi è mai?"
    "Sono io, tuo zio Scrooge. Son venuto a pranzo. Vuoi lasciarmi entrare, Fred?"
    Lasciarlo entrare! E un miracolo che, stringendogli la mano, non gli staccasse addirittura il braccio. Si sentì a casa propria in cinque minuti. Non c'era nulla che potesse essere più cordiale. Sua nipote aveva esattamente lo stesso aspetto, e così Topper quando arrivò, e così la sorellina paffutella quando arrivò e così tutti quanti quando arrivarono. Festa meravigliosa, giochi meravigliosi, armonia meravigliosa, felicità meravigliosa.
    Però la mattina seguente arrivò presto in ufficio. Oh, se ci arrivò presto! Solo poter arrivare per primo e sorprendere Bob Cratchit che arrivava in ritardo: era questa la cosa che più gli stava a cuore.
    E vi riuscì; sì, vi riuscì. L'orologio batté le nove - niente Bob; le nove e un quarto - niente Bob. Era ben diciotto minuti e mezzo in ritardo. Scrooge stava seduto con la porta spalancata, in modo da poterlo veder entrare nella cisterna.
    Si era levato il cappello e la sciarpa prima di aprire la porta, e si arrampicò in un baleno sul suo panchetto, correndo via con la penna come se tentasse di riacchiappare le nove.
    "Ehi là!", grugnì Scrooge, con la sua voce consueta, imitandola il più fedelmente possibile. "Che cosa significa arrivare a quest'ora?"
    "Vi chiedo mille scuse, signor Scrooge", disse Bob, "sono in ritardo."
    "Davvero?", ripeté Scrooge. "Sì, credo che siate in ritardo. Venite un momento qua, per favore!"
    "Una volta sola all'anno, signor Scrooge", supplicò Bob, venendo fuori dalla cisterna. "Non succederà più. Ieri siamo stati un po' allegri."
    "Ora vi dirò una cosa, amico mio", disse Scrooge. "Non intendo tollerare più a lungo questa razza di cose, e perciò", proseguì, balzando su dalla sedia e dando a Bob una tale spinta nel panciotto da farlo andare all'indietro barcollando dentro la cisterna, "e perciò mi propongo di aumentarvi lo stipendio."
    Bob tremò e si avvicinò un po' più al righello. Ebbe per un momento l'idea dì servirsene per stordire Scrooge, e poi tenerlo fermo e chiedere alla gente della corte aiuto e una camicia di forza.
    "Buon Natale, Bob!", disse Scrooge, con una serietà che non poteva essere fraintesa, battendogli sulle spalle. "Un Natale più buono, Bob, mio bravo figliolo, di quelli che vi ho dato per molti anni. Vi aumenterò lo stipendio e tenterò di assistere la vostra famiglia nelle sue difficoltà; e questo stesso pomeriggio discuteremo i vostri affari, seduti davanti a un bel punch natalizio fumante. Ravvivate il fuoco, Bob Cratchit, e comperatevi un'altra paletta per il carbone, prima di mettere il punto su un'altra i."

    Scrooge fece più che mantenere la parola. Fece tutto quanto, e infinitamente di più: e per Tiny Tim, il quale non morì, fu un secondo padre. Divenne un amico, un padrone, un uomo così buono, come poteva mai averne conosciuto quella buona vecchia città, o qualunque altra buona vecchia città, borgata o villaggio di questo buon mondo. Alcuni ridevano, vedendo il suo cambiamento; ma egli era abbastanza saggio da sapere che su questo globo niente di buono è mai accaduto, di cui qualcuno non abbia riso al primo momento. E sapendo che in ogni modo la gente siffatta è cieca, pensò che non aveva nessuna importanza se strizzavano gli occhi in un sogghigno, come fanno gli ammalati di certe forme poco attraenti di malattie. Il suo cuore rideva e questo per lui era perfettamente sufficiente.
    Non ebbe più rapporti con gli spiriti; ma visse sempre, d'allora in poi, sulla base di una totale astinenza; e di lui si disse sempre che se c'era un uomo che sapeva osservare bene il Natale, quell'uomo era lui. Possa questo esser detto veramente di noi, di noi tutti! E cosi, come osservò Tiny Tim, che Dio ci benedica, tutti!

    (Brano di Natale di Charles Dickens)

    [SM=x2039725]

    Letteratura di Natale.
    Tema Natale: L'Agrifoglio.


    Brano di Gina Marzetti Noventa
    Il pastorello si sveglia all'improvviso. In cielo v'è una luce nuova: una luce mai vista a quell'ora. Il giovane pastore si spaventa, lascia l'ovile, attraversa il bosco: è nel campo aperto, sotto una bellissima volta celeste. Dall'alto giunge il canto soave degli Angeli.

    - Tanta pace non può venire che di lassù - pensa il pastorello, e sorride tranquillizzato.
    Le pecorine, a sua insaputa, l'hanno seguito e lo guardano stupite.
    Ecco sopraggiungere molta gente e tutti, a passi affrettati, si dirigono verso una grotta.
    - Dove andate? - chiede il pastorello.
    - Non lo sai? - risponde, per tutti, una giovane donna. - È nato il figlio di Dio: è sceso quaggiù per aprirci le porte del Paradiso.
    Il pastorello si unisce alla comitiva: anch'egli vuole vedere il Figlio di Dio. A un tratto, si sente turbato: tutti recano un dono, soltanto lui non ha nulla da portare a Gesù. Triste e sconvolto, ritorna alle sue pecore. Non ha nulla; nemmeno un fiore; che cosa si può donare quando si così poveri?
    Il ragazzo non sa che il dono più gradito a Gesù è il suo piccolo cuore buono.
    Ahi! Tanti spini gli pungono i piedi nudi. Allora il pastorello si ferma, guarda in terra ed esclama meravigliato: - Oh, un arbusto ancor verde!
    È una pianta di agrifoglio, dalle foglie lucide e spinose.

    Il coro di Angeli sembra avvicinarsi alla terra; c'è tanta festa attorno. Come si può resistere al desiderio di correre dal Santo Bambino anche se non si ha nulla da offrire?
    Ebbene, il pastorello andrà alla divina capanna; un ramo d'agrifoglio sarà il suo omaggio.
    Eccolo alla grotta. Si avvicina felice e confuso al bambino sorridente che sembra aspettarlo.
    Ma che cosa avviene? Le gocce di sangue delle sue mani, ferite dalle spine, si trasformano in rosse palline, che si posano sui verdi rami dell'arbusto che egli ha colto per Gesù.

    Al ritorno, un'altra sorpresa attende il pastorello: nel bosco, tra le lucenti foglie dell'agrifoglio, è tutto un rosseggiare di bacche vermiglie.
    Da quella notte di mistero, l'agrifoglio viene offerto, in segno di augurio, alle persone care.

    (Brano di Natale di G. Marzetti Noventa)

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    Letteratura di Natale:

    LA FESTA DI NATALE
    Tema Natale - brano di Carlo Collodi


    La storia che vi racconto oggi, non è una di quelle novelle, come se ne raccontano tante, ma è una storia vera, vera, vera.

    Dovete dunque sapere che la Contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con tre figli: due maschi e una bambina.

    Il maggiore, di nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove anni: Alberto, il secondo, ne finiva sette, e l'Ada, la minore di tutti, era entrata appena ne' sei anni, sebbene a occhio ne dimostrasse di più, a causa della sua personcina alta, sottile e veramente aggraziata.

    La contessa passava molti mesi all'anno in una sua villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per amore de' suoi figlioletti, che erano gracilissimi e di una salute molto delicata.

    Finita l'ora della lezione, il più gran divertimento di Luigino era quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe stato capace di fare cento chilometri in un giorno se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di legno!

    Ma Luigino gli voleva lo stesso bene, come se fosse stato un cavallo vero. Basta dire, che non passava sera che non lo strigliasse con una bella spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una manciata di lupini salati. E se per caso il cavallo si ostinava a non voler mangiare, allora Luigino gli diceva accarezzandolo:

    «Vedo bene che questa sera non hai fame. Pazienza: i lupini li mangerò io. Addio a domani, e dormi bene».

    E perché il cavallo dormisse davvero, lo metteva a giacere sopra una materassina ripiena d'ovatta: e se la stagione era molto rigida e fredda, non si dimenticava mai di coprirlo con un piccolo pastrano, tutto foderato di lana e fatto cucire apposta dal tappezziere di casa.

    Alberto, il fratello minore, aveva un'altra passione. La sua passione era tutta per un bellissimo Pulcinella, che, tirando certi fili, moveva con molta sveltezza gli occhi, la bocca, le braccia e le gambe, tale e quale come potrebbe fare un uomo vero: e per essere un uomo vero, non gli mancava che una sola cosa: il parlare.

    Figuratevi la bizza di Alberto! Quel buon figliuolo non sapeva rendersi una ragione del perché il suo Pulcinella, ubbidientissimo a fare ogni sorta di movimenti, avesse preso la cocciutaggine di non voler discorrere a modo e verso, come discorrono tutte le persone per bene, che hanno la bocca e la lingua.

    E fra lui e Pulcinella accadevano spesso dei dialoghi e dei battibecchi un tantino risentiti, sul genere di questi:

    «Buon giorno, Pulcinella», gli diceva Alberto, andando ogni mattina a tirarlo fuori dal piccolo armadio dove stava riposto. «Buon giorno, Pulcinella.»
    E Pulcinella non rispondeva.
    «Buon giorno, Pulcinella», ripeteva Alberto. E Pulcinella, zitto! come se non dicessero a lui.
    «Su, via, finiscila di fare il sordo e rispondi: buon giorno, Pulcinella.»
    E Pulcinella, duro!
    «Se non vuoi parlare con me, guardami almeno in viso» diceva Alberto un po' stizzito.
    E Pulcinella, ubbidiente, girava subito gli occhi e lo guardava.
    «Ma perché», gridava Alberto arrabbiandosi sempre di più, «ma perché se ti dico »guardami» allora mi guardi; e se ti dico »buon giorno» non mi rispondi?»
    E Pulcinella, zitto!
    «Brutto dispettoso! Alza subito una gamba!»
    E Pulcinella alzava una gamba.
    «Dammi la mano!»
    E Pulcinella gli dava la mano.
    «Ora fammi una bella carezzina!»
    E Pulcinella allungava il braccio e prendeva Alberto per la punta del naso.
    «Ora spalanca tutta la bocca!»
    E Pulcinella spalancava una bocca, che pareva un forno.
    «Di già che hai la bocca aperta, profittane almeno per darmi il buon giorno.»

    Ma il Pulcinella, invece di rispondere, rimaneva lì a bocca aperta, fermo e intontito, come, generalmente parlando, è il vizio di tutti gli omini di legno.

    Alla fine Alberto, con quel piccolo giudizino, che è proprio di molti ragazzi, cominciò a mettersi nella testa che il suo Pulcinella non volesse parlare né rispondergli, perché era indispettito con lui. Indispettito!... e di che cosa? Forse di vedersi mal vestito, con un cappellaccio in capo di lana bianca, una camicina tutta sbrindellata, e un paio di pantaloncini così corti e striminziti, che gli arrivavano appena a mezza gamba.

    «Povero Pulcinella!», disse un giorno Alberto, compiangendolo sinceramente, «se tu mi tieni il broncio, non hai davvero tutti i torti. Io ti mando vestito peggio di un accattone... ma lascia fare a me! Fra poco verranno le feste di Natale. Allora potrò rompere il mio salvadanaio... e con quei quattrini, voglio farti una bella giubba, mezza d'oro e mezza d'argento.»
    Per intendere queste parole di Alberto, occorre avvertire che la Contessa aveva messo l'uso di regalare a' suoi figli due o tre soldi la settimana, a seconda, s'intende bene, de' loro buoni portamenti. Questi soldi andavano in tre diversi salvadanai: il salvadanaio di Luigino, quello di Alberto e quello dell'Ada. Otto giorni avanti la pasqua di Natale, i salvadanai si rompevano, e coi danari che vi si trovavano dentro, tanto la bambina, come i due ragazzi erano padronissimi di comprarsi qualche cosa di loro genio.

    Luigino, com'è naturale, aveva pensato di comprare per il suo cavallo una briglia di pelle lustra con le borchie di ottone, e una bella gualdrappa, da potergliela gettare addosso, quando era sudato.
    L'Ada, che aveva una bambola più grande di lei, non vedeva l'ora di farle un vestitino di seta, rialzato di dietro, secondo la moda, e un paio di scarpine scollate per andare alle feste da ballo.
    In quanto al desiderio di Alberto, è facile immaginarselo. Il suo vivissimo desiderio era quello di rivestire il Pulcinella con tanto lusso, da doverlo scambiare per un signore di quelli buoni.

    Intanto il Natale s'avvicinava, quand'ecco che una mattina, mentre i due fratelli con la loro sorellina, andavano a spasso per i dintorni della villa, si trovarono dinanzi a una casipola tutta rovinata, che pareva piuttosto una capanna da pastori. Seduto sulla porta c'era un povero bambino mezzo nudo, che dal freddo tremava come una foglia.

    «Zio Bernardo, ho fame», disse il bambino con una voce sottile, sottile, voltandosi appena con la testa verso l'interno della stanza terrena.

    Nessuno rispose.

    In quella stanza terrena c'era accovacciato sul pavimento un uomo con una barbaccia rossa, che teneva i gomiti appuntellati sulle ginocchia e la testa fra le mani.

    «Zio Bernardo, ho fame!...», ripeté dopo pochi minuti il bambino, con un filo di voce che si sentiva appena.
    «Insomma vuoi finirla?», gridò l'uomo dalla barbaccia rossa. «Lo sai che in casa non c'è un boccone di pane: e se tu hai fame, piglia questo zoccolo e mangialo!»

    E nel dir così, quell'uomo bestiale si levò di piede uno zoccolo e glielo tirò. Forse non era sua intenzione di fargli del male; ma disgraziatamente lo colpì nel capo.

    Allora Luigino, Alberto e l'Ada, commossi a quella scena, tirarono fuori alcuni pezzetti di pane trovati per caso nelle loro tasche, e andarono a offrirli a quel disgraziato figliolo.
    Ma il bambino, prima si toccò con la mano la ferita del capo: poi guardandosi la manina tutta insanguinata, balbettò a mezza voce:

    «Grazie... ora non ho più fame...».

    Quando i ragazzi furono tornati alla villa, raccontarono il caso compassionevole alla loro mamma; e di quel caso se ne parlò due o tre giorni di seguito. Poi, come accade di tutte le cose di questo mondo, si finì per dimenticarlo e per non parlarne più.
    Alberto, per altro, non se l'era dimenticato: e tutte le sere andando a letto, e ripensando a quel povero bambino mezzo nudo e tremante dal freddo, diceva grogiolandosi fra il calduccio delle lenzuola:

    «Oh come dev'essere cattivo il freddo! Brrr...».

    E dopo aver detto e ripetuto per due o tre volte «Oh come dev'esser cattivo il freddo!» si addormentava saporitamente e faceva tutto un sonno fino alla mattina.
    Pochi giorni dopo accadde che Alberto incontrò per le scale di cucina la Rosa: la quale era l'ortolana che veniva a vendere le uova fresche alla villa.

    «Sor Albertino, buon giorno signoria», disse la Rosa: «quanto tempo è che non è passato dalla casa dell'Orco?»
    «Chi è l'Orco?»
    «Noi si chiama con questo soprannome quell'uomo dalla barbaccia rossa, che sta laggiù sulla via maestra.»
    «O il suo bambino che fa?»
    «Povera creatura, che vuol che faccia?... È rimasto senza babbo e senza mamma, alle mani di quello zio Bernardo...»
    «Che dev'essere un uomo cattivo e di cuore duro come la pietra, non è vero?», soggiunse Alberto.
    «Pur troppo! Meno male che domani parte per l'America... e forse non ritornerà più.»
    «E il nipotino lo porta con sé?»
    «Nossignore: quel povero figliuolo l'ho preso con me, e lo terrò come se fosse mio».
    «Brava Rosa.»
    «A dir la verità, gli volevo fare un po' di vestituccio, tanto da coprirlo dal freddo... ma ora sono corta a quattrini. Se Dio mi dà vita, lo rivestirò alla meglio a primavera.»

    Alberto stette un po' soprappensiero, poi disse:
    «Senti, Rosa, domani verso mezzogiorno ritorna qui, alla villa: ho bisogno di vederti.»
    «Non dubiti.»


    Il giorno seguente, era il giorno tanto atteso, tanto desiderato, tanto rammentato: il giorno, cioè, in cui celebravasi solennemente la rottura de' tre salvadanai.

    Luigino trovò nel suo salvadanaio dieci lire: l'Ada trovò nel suo undici lire, e Alberto vi trovò nove lire e mezzo.

    «Il tuo salvadanaio», gli disse la mamma, «è stato più povero degli altri due: e sai perché? perché in quest'anno tu hai avuto poca voglia di studiare.»
    «La voglia di studiare l'ho avuta», replicò Alberto, «ma bastava che mi mettessi a studiare, perché la voglia mi passasse subito.»
    «Speriamo che quest'altr'anno non ti accada lo stesso» soggiunse la mamma: poi volgendosi a tutti e tre i figli, seguitò a dire: «Da oggi alla pasqua di Natale, come sapete, vi sono otto giorni precisi. In questi otto giorni, secondo i patti stabiliti, ognuno di voi è padronissimo di fare quell'uso che vorrà, dei danari trovati nel proprio salvadanaio. Quello poi, di voialtri, che saprà farne l'uso migliore, avrà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio.»

    »Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi finimenti e alla bella gualdrappa che aveva ordinato per il suo cavallo.

    »Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé l'Ada, pensando alle belle scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio per la sua bambola.

    »Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito che voleva fare al suo Pulcinella.

    Ma nel tempo che egli pensava al Pulcinella, sentì la voce della Rosa che, chiamandolo a voce alta dal prato della villa, gridava:

    «Sor Alberto! sor Alberto!».

    Alberto scese subito. Che cosa dicesse alla Rosa non lo so: ma so che quella buona donna, nell'andarsene, ripeté più volte:
    «Sor Albertino, lo creda a me: lei ha fatto proprio una carità fiorita, e Dio manderà del bene anche a lei e a tutta la sua famiglia!».
    Otto giorni passarono presto: e dopo otto giorni arrivò la festa di Natale o il Ceppo, come lo chiamano i fiorentini.

    Finita appena la colazione, ecco che la Contessa disse sorridendo ai suoi tre figli:
    «Oggi è Natale. Vediamo, dunque, come avete speso i quattrini dei vostri salvadanai. Ricordatevi intanto che, quello di voialtri che li avrà spesi meglio, riceverà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio. Su, Luigino! tu sei il maggiore e tocca a te a essere il primo».

    Luigino uscì dalla sala e ritornò quasi subito, conducendo a mano il suo cavallo di legno, ornato di finimenti così ricchi, e d'una gualdrappa così sfavillante, da fare invidia ai cavalli degli antichi imperatori romani.
    «Non c'è che dire», osservò la mamma, sempre sorridente «quella gualdrappa e quei finimenti sono bellissimi, ma per me hanno un gran difetto... il difetto, cioè, di essere troppo belli per un povero cavallino di legno. Avanti, Alberto! Ora tocca a te.»
    «No, no», gridò il ragazzetto, turbandosi leggermente, «prima di me, tocca all'Ada.»

    E l'Ada, senza farsi pregare, uscì dalla sala, e dopo poco rientrò tenendo a braccetto una bambola alta quanto lei, e vestita elegantemente, secondo l'ultimo figurino.

    «Guarda, mamma, che belle scarpine da ballo!», disse l'Ada compiacendosi di mettere in mostra la graziosa calzatura della sua bambola.
    «Quelle scarpine sono un amore!», replicò la mamma. «Peccato però che debbano calzare i piedi d'una bambina fatta di cenci e di stucco, e che non saprà mai ballare!»
    «E ora, Alberto, vediamo un po' come tu hai speso le nove lire e mezzo, che hai trovate nel tuo salvadanaio.»
    «Ecco... io volevo... ossia, avevo pensato di fare... ossia, credevo... ma poi ho creduto meglio... e così oramai l'affare è fatto e non se ne parli più.»
    «Ma che cosa hai fatto?»
    «Non ho fatto nulla.»
    «Sicché avrai sempre in tasca i danari?»
    «Ce li dovrei avere...»
    «Li hai forse perduti?»
    «No.»
    «E, allora, come li hai tu spesi?»
    «Non me ne ricordo più.»

    In questo mentre si sentì bussare leggermente alla porta della sala, e una voce di fuori disse:

    «È permesso?.»
    «Avanti.»

    Apertasi la porta, si presentò sulla soglia, indovinate chi! Si presentò la Rosa ortolana, che teneva per la mano un bimbetto tutto rivestito di panno ordinario, ma nuovo, con un berrettino di panno, nuovo anche quello, e in piedi un paio di stivaletti di pelle bianca da campagnolo.

    «È tuo, Rosa, codesto bambino?», domandò la Contessa.
    «Ora è lo stesso che sia mio, perché l'ho preso con me e gli voglio bene, come a un figliolo. Povera creatura! Finora ha patito la fame e il freddo. Ora il freddo non lo patisce più, perché ha trovato un angiolo di benefattore, che lo ha rivestito a sue spese da capo a piedi.»
    «E chi è quest'angelo di benefattore?», chiese la Contessa.

    L'ortolana si voltò verso Alberto, e guardandolo in viso e accennandolo alla sua mamma, disse tutta contenta:

    «Eccolo là.»

    Albertino diventò rosso come una ciliegia: poi rivolgendosi impermalito alla Rosa, cominciò a gridare:

    «Chiacchierona! Eppure ti avevo detto di non raccontar nulla a nessuno!...».
    «La scusi: che c'è forse da vergognarsi per aver fatto una bell'opera di carità come la sua?»
    «Chiacchierona! chiacchierona! chiacchierona!», ripeté Alberto, arrabbiandosi sempre più; e tutto stizzito fuggì via dalla sala.

    La sua mamma, che aveva capito ogni cosa, lo chiamò più volte: ma siccome Alberto non rispondeva, allora si alzò dalla poltrona e andò a cercarlo da per tutto. Trovatolo finalmente nascosto in guardaroba, lo abbracciò amorosamente, e invece di dargli a titolo di premio un bacio, gliene dette per lo meno più di cento.

    (Brano di Natale di Carlo Collodi )


    www.ilnatale.org/leggende/
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    Merlino
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    00 24/11/2009 18:08


    Letteratura di Natale:
    IL DONO DI NATALE
    Tema Natale - brano di Grazia Deledda


    I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.

    Era una festa eccezionale, per loro, quell'anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.

    Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.

    E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.

    Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.

    Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d'alberi carichi di neve e di ghiacciuoli, appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole.

    Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.
    Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un'altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.
    Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.

    - Ben tornato, Felle.
    - Oh, Lia! - egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.

    Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l'amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d'occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.

    - Che ci hai, qui? - domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. - Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, - aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: - e anche noi!

    Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.

    In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con buccie di arancie e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.

    La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un'aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.
    Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.

    - Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po' di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? - pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.

    Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca.

    Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all'esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l'uomo che lo accompagnava. Quest'uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l'indipendenza d'Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista.

    E rimasero tutti scambievolmente contenti.

    Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d'oro.

    Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.
    L'ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s'intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.

    Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.
    Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.
    Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d'occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.

    Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.

    Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.

    - La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini - disse a Felle: - anch'essi hanno diritto di godersi la festa.
    Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile.
    La notte era gelida ma calma, e d'un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.

    Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.
    All'entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:

    - La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.

    Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c'erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po' triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.
    Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.

    - Oh, ragazzi, su, in fila.

    E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.

    I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.
    Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell'aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.

    Dentro la chiesa continuava l'illusione della primavera: l'altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l'ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.

    In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d'oro illuminava loro la via.
    Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.
    Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.

    - Gloria, gloria - cantavano i preti sull'altare: e il popolo rispondeva:
    - Gloria a Dio nel più alto dei cieli.
    E pace in terra agli uomini di buona volontà.

    Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.
    All'uscita di chiesa sentì un po' freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l'odore d'arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l'uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d'arancio, perché l'anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.

    Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un'asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.
    Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.

    In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d'avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l'arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.

    Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolìo della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.
    Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.


    Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?
    Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.

    Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov'era?

    - Vieni avanti, e va su a vedere - gli disse l'uomo, indovinando il pensiero di lui.

    Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.
    E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.

    - È il nostro primo fratellino - mormorò Lia. - Mio padre l'ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il "Gloria". Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.

    (Brano di Natale di Grazia Deledda )
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    Merlino
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    00 24/11/2009 18:11

    Letteratura di Natale:

    I FIGLI DI BABBO NATALE
    Tema Natale - brano di Italo Calvino


    Non c'è epoca dell'anno più gentile e buona, per il mondo dell'industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L'unico pensiero dei Consigli d'amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d'augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s'inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po' abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino dànno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d'affari le grevi contese d'interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.

    Alla Sbav quell'anno l'Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale.
    L'idea suscitò l'approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un'acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano rossi bordati di pelliccia, stivaloni. Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo.
    Mentre il capo dell'Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l'idea: l'Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l'Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l'Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V.
    Tutti erano presi dall'atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto - come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne -, è ciò che conta.
    In magazzino, il bene - materiale e spirituale - passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall'Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra " tredicesima mensilità " e " ore straordinarie ". Con qui soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell'industria e del commercio.

    Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: - Ehi, tu! - disse a Marcovaldo. - Prova un po' come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno.
    Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d'agrifoglio. La barba d'ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall'aria.

    La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini. " Dapprincipio, - pensava, non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo! "
    I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. - Ciao papà.
    Marcovaldo ci rimase male. -Mah... Non vedete come sono vestito?
    - E come vuoi essere vestito? - disse Pietruccio. - Da Babbo Natale, no?
    - E m'avete riconosciuto subito?
    - Ci vuol tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te!
    - E il cognato della portinaia!
    - E il padre dei gemelli che stanno di fronte!
    - E lo zio di Ernestina quella con le trecce!
    - Tutti vestiti da Babbo Natale? - chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché sentiva in qualche modo colpito il prestigio aziendale.
    - Certo, tal quale come te, uffa, - risposero i bambini, - da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, - e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi.
    Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia. I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po' ci avevano fatto l'abitudine e non ci badavano più.
    Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S'erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio. - Si può sapere cosa state complottando? - chiese Marcovaldo.
    - Lasciaci in pace, papà, dobbiamo preparare i regali.
    - Regali per chi?
    - Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali.
    - Ma chi ve l'ha detto?
    - C'è nel libro di lettura.
    Marcovaldo stava per dire: " Siete voi i bambini poveri! ", ma durante quella settimana s'era talmente persuaso a considerarsi un abitante del Paese della Cuccagna, dove tutti compravano e se la godevano e si facevano regali, che non gli pareva buona educazione parlare di povertà, e preferì dichiarare: - Bambini poveri non ne esistono più!
    S'alzò Michelino e chiese: - È per questo, papà, che non ci porti regali?
    Marcovaldo si sentí stringere il cuore. - Ora devo guadagnare degli straordinari, - disse in fretta, - e poi ve li porto.
    - Li guadagni come? - chiese Filippetto.
    - Portando dei regali, - fece Marcovaldo.
    - A noi?
    - No, ad altri.
    - Perché non a noi? Faresti prima..
    Marcovaldo cercò di spiegare: - Perché io non sono mica il Babbo Natale delle Relazioni Umane: io sono il Babbo Natale delle Relazioni Pubbliche. Avete capito?
    - No.
    - Pazienza -. Ma siccome voleva in qualche modo farsi perdonare d'esser venuto a mani vuote, pensò di prendersi Michelino e portarselo dietro nel suo giro di consegne. - Se stai buono puoi venire a vedere tuo padre che porta i regali alla gente, - disse, inforcando la sella del motofurgoncino.
    - Andiamo, forse troverò un bambino povero, - disse Michelino e saltò su, aggrappandosi alle spalle del padre.
    Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all'automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un'aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell'enorme macchinario delle Feste.

    E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all'altro segnato sull'elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase:
    - La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo,- e prendeva la mancia.
    Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni.
    Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante. - Uh, ancora un altro pacco, da chi viene?
    - La Sbav augura...
    - Be', portate qua, - e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d'occhi, andava dietro al padre.
    La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell'abete s'impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c'era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un'aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.
    - Gianfranco, su, Gianfranco, - disse la governante, - hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?
    - Trecentododici, - sospirò il bambino - senz'alzare gli occhi dal libro. - Metta lí.
    - È il trecentododicesimo regalo che arriva, - disse la governante. - Gianfranco è cosí bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare.
    In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa.
    - Papà, quel bambino è un bambino povero? - chiese Michelino.
    Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento, s'affrettò a protestare: - Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell'Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator...
    S'interruppe, perché non vedeva Michelino. Michelino, Michelino! Dove sei? Era sparito.
    " Sta’ a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l'ha scambiato per me e gli è andato dietro... " Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po' in pensiero e non vedeva l'ora di tornare a casa.
    A casa, ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono.
    - Di' un po', tu: dove t'eri cacciato?
    - A casa, a prendere i regali... Si, i regali per quel bambino povero...
    - Eh! Chi?
    - Quello che se ne stava cosi triste.. - quello della villa con l'albero di Natale...
    - A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?
    - Oh, li avevamo preparati bene... tre regali, involti in carta argentata.
    Intervennero i fratellini. Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!
    - Figuriamoci! - disse Marcovaldo. - Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!
    - Sí, sí dei nostri... È corso subito a strappare la carta per vedere cos'erano...
    - E cos'erano?
    - Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno...
    - E lui?
    - Saltava dalla gioia! L'ha afferrato e ha cominciato a usarlo!
    - Come?
    - Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo...
    - Cos'era?
    - Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza... Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell'albero di Natale. Poi è passato ai lampadari...
    - Basta, basta, non voglio più sentire! E... il terzo regalo?
    - Non avevamo più niente da regalare, cosi abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l'ha fatto più felice. Diceva: " I fiammiferi non me li lasciano mai toccare! " Ha cominciato ad accenderli, e...
    -E...?
    - …ha dato fuoco a tutto!
    Marcovaldo aveva le mani nei capelli. - Sono rovinato!
    L'indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivesti da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell'Ufficio Commerciale.
    - Alt! - gli dissero, - scaricare tutto; subito!
    " Ci siamo! " si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato.
    - Presto! Bisogna sostituire i pacchi! - dissero i Capiufficio. - L'Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo!
    - Cosi tutt'a un tratto... - commentò uno di loro. Avrebbero potuto pensarci prima...
    - È stata una scoperta improvvisa del presidente, - spiegò un altro. - Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi...
    - Quel che più conta, - aggiunse il terzo, - è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d'ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato... Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d'un bambino... Il presidente dell'Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell'entusiasmo...
    - Ma questo bambino, - chiese Marcovaldo con un filo di voce, - ha distrutto veramente molta roba?
    - Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata...

    Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.
    E la città sembrava più piccola, raccolta in un'ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d'un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s'udiva l'ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.
    Usci un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un'impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi.
    C'era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là.
    Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo usci dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento.
    Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.
    È qua? È là? no, è un po' più in là?
    Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.

    (Racconto di Natale di Italo Calvino )
    [SM=x2039724]

    Letteratura di Natale:
    I FIGLI DI BABBO NATALE
    Tema Natale - brano di Italo Calvino


    Non c'è epoca dell'anno più gentile e buona, per il mondo dell'industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L'unico pensiero dei Consigli d'amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d'augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s'inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po' abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino dànno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d'affari le grevi contese d'interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.

    Alla Sbav quell'anno l'Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale.
    L'idea suscitò l'approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un'acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano rossi bordati di pelliccia, stivaloni. Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo.
    Mentre il capo dell'Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l'idea: l'Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l'Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l'Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V.
    Tutti erano presi dall'atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto - come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne -, è ciò che conta.
    In magazzino, il bene - materiale e spirituale - passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall'Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra " tredicesima mensilità " e " ore straordinarie ". Con qui soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell'industria e del commercio.

    Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: - Ehi, tu! - disse a Marcovaldo. - Prova un po' come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno.
    Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d'agrifoglio. La barba d'ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall'aria.

    La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini. " Dapprincipio, - pensava, non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo! "
    I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. - Ciao papà.
    Marcovaldo ci rimase male. -Mah... Non vedete come sono vestito?
    - E come vuoi essere vestito? - disse Pietruccio. - Da Babbo Natale, no?
    - E m'avete riconosciuto subito?
    - Ci vuol tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te!
    - E il cognato della portinaia!
    - E il padre dei gemelli che stanno di fronte!
    - E lo zio di Ernestina quella con le trecce!
    - Tutti vestiti da Babbo Natale? - chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché sentiva in qualche modo colpito il prestigio aziendale.
    - Certo, tal quale come te, uffa, - risposero i bambini, - da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, - e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi.
    Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia. I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po' ci avevano fatto l'abitudine e non ci badavano più.
    Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S'erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio. - Si può sapere cosa state complottando? - chiese Marcovaldo.
    - Lasciaci in pace, papà, dobbiamo preparare i regali.
    - Regali per chi?
    - Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali.
    - Ma chi ve l'ha detto?
    - C'è nel libro di lettura.
    Marcovaldo stava per dire: " Siete voi i bambini poveri! ", ma durante quella settimana s'era talmente persuaso a considerarsi un abitante del Paese della Cuccagna, dove tutti compravano e se la godevano e si facevano regali, che non gli pareva buona educazione parlare di povertà, e preferì dichiarare: - Bambini poveri non ne esistono più!
    S'alzò Michelino e chiese: - È per questo, papà, che non ci porti regali?
    Marcovaldo si sentí stringere il cuore. - Ora devo guadagnare degli straordinari, - disse in fretta, - e poi ve li porto.
    - Li guadagni come? - chiese Filippetto.
    - Portando dei regali, - fece Marcovaldo.
    - A noi?
    - No, ad altri.
    - Perché non a noi? Faresti prima..
    Marcovaldo cercò di spiegare: - Perché io non sono mica il Babbo Natale delle Relazioni Umane: io sono il Babbo Natale delle Relazioni Pubbliche. Avete capito?
    - No.
    - Pazienza -. Ma siccome voleva in qualche modo farsi perdonare d'esser venuto a mani vuote, pensò di prendersi Michelino e portarselo dietro nel suo giro di consegne. - Se stai buono puoi venire a vedere tuo padre che porta i regali alla gente, - disse, inforcando la sella del motofurgoncino.
    - Andiamo, forse troverò un bambino povero, - disse Michelino e saltò su, aggrappandosi alle spalle del padre.
    Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all'automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un'aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell'enorme macchinario delle Feste.

    E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all'altro segnato sull'elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase:
    - La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo,- e prendeva la mancia.
    Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni.
    Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante. - Uh, ancora un altro pacco, da chi viene?
    - La Sbav augura...
    - Be', portate qua, - e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d'occhi, andava dietro al padre.
    La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell'abete s'impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c'era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un'aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.
    - Gianfranco, su, Gianfranco, - disse la governante, - hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?
    - Trecentododici, - sospirò il bambino - senz'alzare gli occhi dal libro. - Metta lí.
    - È il trecentododicesimo regalo che arriva, - disse la governante. - Gianfranco è cosí bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare.
    In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa.
    - Papà, quel bambino è un bambino povero? - chiese Michelino.
    Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento, s'affrettò a protestare: - Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell'Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator...
    S'interruppe, perché non vedeva Michelino. Michelino, Michelino! Dove sei? Era sparito.
    " Sta’ a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l'ha scambiato per me e gli è andato dietro... " Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po' in pensiero e non vedeva l'ora di tornare a casa.
    A casa, ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono.
    - Di' un po', tu: dove t'eri cacciato?
    - A casa, a prendere i regali... Si, i regali per quel bambino povero...
    - Eh! Chi?
    - Quello che se ne stava cosi triste.. - quello della villa con l'albero di Natale...
    - A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?
    - Oh, li avevamo preparati bene... tre regali, involti in carta argentata.
    Intervennero i fratellini. Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!
    - Figuriamoci! - disse Marcovaldo. - Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!
    - Sí, sí dei nostri... È corso subito a strappare la carta per vedere cos'erano...
    - E cos'erano?
    - Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno...
    - E lui?
    - Saltava dalla gioia! L'ha afferrato e ha cominciato a usarlo!
    - Come?
    - Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo...
    - Cos'era?
    - Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza... Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell'albero di Natale. Poi è passato ai lampadari...
    - Basta, basta, non voglio più sentire! E... il terzo regalo?
    - Non avevamo più niente da regalare, cosi abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l'ha fatto più felice. Diceva: " I fiammiferi non me li lasciano mai toccare! " Ha cominciato ad accenderli, e...
    -E...?
    - …ha dato fuoco a tutto!
    Marcovaldo aveva le mani nei capelli. - Sono rovinato!
    L'indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivesti da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell'Ufficio Commerciale.
    - Alt! - gli dissero, - scaricare tutto; subito!
    " Ci siamo! " si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato.
    - Presto! Bisogna sostituire i pacchi! - dissero i Capiufficio. - L'Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo!
    - Cosi tutt'a un tratto... - commentò uno di loro. Avrebbero potuto pensarci prima...
    - È stata una scoperta improvvisa del presidente, - spiegò un altro. - Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi...
    - Quel che più conta, - aggiunse il terzo, - è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d'ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato... Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d'un bambino... Il presidente dell'Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell'entusiasmo...
    - Ma questo bambino, - chiese Marcovaldo con un filo di voce, - ha distrutto veramente molta roba?
    - Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata...

    Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.
    E la città sembrava più piccola, raccolta in un'ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d'un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s'udiva l'ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.
    Usci un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un'impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi.
    C'era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là.
    Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo usci dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento.
    Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.
    È qua? È là? no, è un po' più in là?
    Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.

    (Racconto di Natale di Italo Calvino
    [SM=x1868338]

    Letteratura di Natale:
    IL NATALE
    Tema Natale - brano di Alessandro Manzoni

    Qual masso che dal vertice
    di lunga erta montana,
    abbandonato all'impeto
    di rumorosa frana,
    per lo scheggiato calle
    precipitando a valle,
    barre sul fondo e sta;

    là dove cadde, immobile
    giace in sua lenta mole;
    né, per mutar di secoli,
    fia che riveda il sole
    della sua cima antica,
    se una virtude amica
    in alto nol trarrà:

    tal si giaceva il misero
    figliol del fallo primo,
    dal dì che un'ineffabile
    ira promessa all'imo
    d'ogni malor gravollo,
    donde il superbo collo
    più non potea levar.

    Qual mai tra i nati all'odio,
    quale era mai persona
    che al Santo inaccessibile
    potesse dir: perdona?
    far novo patto eterno?
    al vincitore inferno
    la preda sua strappar?

    Ecco ci è nato un Pargolo,
    ci fu largito un Figlio:
    le avverse forze tremano
    al mover del suo ciglio:
    all' uom la mano Ei porge,
    che sì ravviva, e sorge
    oltre l'antico onor.

    Dalle magioni eteree
    sgorga una fonte, e scende,
    e nel borron de' triboli
    vivida si distende:
    stillano mele i tronchi
    dove copriano i bronchi,
    ivi germoglia il fior.

    O Figlio, o Tu cui genera
    l'Eterno, eterno seco;
    qual ti può dir de' secoli:
    Tu cominciasti meco?
    Tu sei: del vasto empiro
    non ti comprende il giro:
    la tua parola il fe'.

    E Tu degnasti assumere
    questa creata argilla?
    qual merto suo, qual grazia
    a tanto onor sortilla
    se in suo consiglio ascoso
    vince il perdon, pietoso
    immensamente Egli è.

    Oggi Egli è nato: ad Efrata,
    vaticinato ostello,
    ascese un'alma Vergine,
    la gloria d'lsraello,
    grave di tal portato
    da cui promise è nato,
    donde era atteso usci.

    La mira Madre in poveri
    panni il Figliol compose,
    e nell'umil presepio
    soavemente il pose;
    e l'adorò: beata!
    innazi al Dio prostrata,
    che il puro sen le aprì.

    L’Angel del cielo, agli uomini
    nunzio di tanta sorte,
    non de' potenti volgesi
    alle vegliate porte;
    ma tra i pastor devoti,
    al duro mondo ignoti,
    subito in luce appar.

    E intorno a lui per l'ampia
    notte calati a stuolo,
    mille celesti strinsero
    il fiammeggiante volo;
    e accesi in dolce zelo,
    come si canta in cielo
    A Dio gloria cantar.

    L’allegro inno seguirono,
    tornando al firmamento:
    tra le varcare nuvole
    allontanossi, e lento
    il suon sacrato ascese,
    fin che più nulla intese
    la compagnia fedel.

    Senza indugiar, cercarono
    l'albergo poveretto
    que' fortunati, e videro,
    siccome a lor fu detto
    videro in panni avvolto,
    in un presepe accolto,
    vagire il Re del Ciel.

    Dormi, o Fanciul; non piangere;
    dormi, o Fanciul celeste:
    sovra il tuo capo stridere
    non osin le tempeste,
    use sull'empia terra,
    come cavalli in guerra,
    correr davanti a Te.

    Dormi, o Celeste: i popoli
    chi nato sia non sanno;
    ma il dì verrà che nobile
    retaggio tuo saranno;
    che in quell'umil riposo,
    che nella polve ascoso,
    conosceranno il Re.

    (Racconto di Natale di Alessandro Manzoni)
    [SM=x2039724]

    Letteratura di Natale:
    NATALE, UN GIORNO
    Tema Natale - brano di Hirokazu Ogura

    Perché
    dappertutto ci sono cosi tanti recinti?
    In fondo tutto il mondo e un grande recinto.

    Perché
    la gente parla lingue diverse?
    In fondo tutti diciamo le stesse cose.

    Perché
    il colore della pelle non e indifferente?
    In fondo siamo tutti diversi.

    Perché
    gli adulti fanno la guerra?
    Dio certamente non lo vuole.

    Perché
    avvelenano la terra?
    Abbiamo solo quella.

    A Natale - un giorno - gli uomini andranno d’accordo in tutto il mondo.
    Allora ci sarà un enorme albero di Natale con milioni di candele.
    Ognuno ne terrà una in mano, e nessuno riuscirà a vedere l’enorme albero fino alla punta.

    Allora tutti si diranno "Buon Natale!" a Natale, un giorno.

    (Racconto di Natale di Hirokazu Ogura)


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    Letteratura di Natale:


    LA MANGIATOIA
    Tema Natale - brano di Ai Qing


    Per l'anniversario della nascita di un Nazareno
    Perché nevica ancora?
    I passeri sulla staccionata guardano il cielo
    il cielo è così buio
    qualcuno passa oltre la mangiatoia
    alla mangiatoia, il pianto di una donna
    come se le lacrime di dolore e vergogna
    di tutta una notte
    ancora non bastassero a inumidire
    la terra inaridita dell'inverno!
    Qualcuno passa oltre la mangiatoia
    dalla mangiatoia vengono lamenti che strappano il cuore
    ah , con innumerevoli dita
    la folla segna la fanciulla-madre
    sprezzata come immondizia
    nessuno è disposto a portarle un catino per il sangue
    a versarle un secchio di acqua calda.
    II vento penetra nelle crepe del muro di terra
    è il ghigno del freddo invernale
    lei lotta lotta lotta
    la testa appoggiata alla staccionata
    guardate, tra i capelli scarmigliati
    scintillano febbri citanti gli occhi luminosi
    questa donna di Betlemme scacciata,
    esposta alla pubblica infamia
    vittima del disprezzo della folla
    tutto il corpo in un bagno di sudore
    Vento soffia ancora con forza
    perché ti sei placato?
    Ascoltate i teneri vagiti
    il sangue della puerpera
    la mangiatoia mai prima fiorita
    ha cosparso di splendidi fiori
    la piccola vita
    dà nuova forza alla madre
    nella paglia di riso quattro membra si muovono
    qualcuno passa oltre la mangiatoia
    rivolge sguardi obliqui
    qualcuno passa oltre la mangiatoia
    si allontana sdegnoso
    qualcuno passa oltre la mangiatoia
    muove gelide risa
    il bimbo primogenito
    col suo pianto spaurito
    viene a conoscere questo mondo straniero
    dalla nebbia del malessere
    Maria si risveglia
    china il viso di cenere
    e parla tra le lacrime
    che scorrono ininterrotte
    «Bambino mio
    a Betlemme
    noi saremo scacciati
    noi andiamo
    raminghi a farti crescere
    Oggi ci incamminiamo
    ricordati che sei
    nato nella mangiatoia
    figlio di una donna reietta
    che ti ha dato la vita nel dolore e nell' oppressione
    quando ne avrai le forze
    dovrai con le tue lacrime
    lavare i peccati degli uomini».
    Dolorosamente si leva
    avvolge il neonato nel suo petto
    e desolata lascia la mangiatoia
    fiocchi di neve turbinano sui suoi capelli sparsi
    in silenzio
    va via.

    Natale 1936

    (Racconto di Natale di Ai Qing)

    [SM=x2039725]

    Letteratura di Natale:

    LA NOTTE SANTA
    Tema Natale - brano di Guido Gozzano


    - Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
    Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
    Presso quell'osteria potremo riposare,
    ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

    Il campanile scocca
    lentamente le sei.

    - Avete un po' di posto, o voi del Caval Grigio?
    Un po' di posto per me e per Giuseppe?
    - Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
    son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

    Il campanile scocca
    lentamente le sette.

    - Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
    Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
    - Tutto l'albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
    Tentate al Cervo Bianco, quell'osteria più sotto.

    Il campanile scocca
    lentamente le otto.

    - O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
    avete per dormire? Non ci mandate altrove!
    - S'attende la cometa. Tutto l'albergo ho pieno
    d'astronomi e di dotti, qui giunti d'ogni dove.

    Il campanile scocca
    lentamente le nove.

    - Ostessa dei Tre Merli, pietà d'una sorella!
    Pensate in quale stato e quanta strada feci!
    - Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
    Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...

    Il campanile scocca
    lentamente le dieci.

    - Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?
    Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
    L'albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
    non amo la miscela dell'alta e bassa gente.

    Il campanile scocca
    le undici lentamente.

    La neve! - ecco una stalla! - Avrà posto per due?
    - Che freddo! - Siamo a sosta - Ma quanta neve, quanta!
    Un po' ci scalderanno quell'asino e quel bue...
    Maria già trascolora, divinamente affranta...

    Il campanile scocca
    La Mezzanotte Santa.

    È nato!
    Alleluja! Alleluja!

    È nato il Sovrano Bambino.
    La notte, che già fu sì buia,
    risplende d'un astro divino.
    Orsù, cornamuse, più gaje
    suonate; squillate, campane!
    Venite, pastori e massaie,
    o genti vicine e lontane!

    Non sete, non molli tappeti,
    ma, come nei libri hanno detto
    da quattro mill'anni i Profeti,
    un poco di paglia ha per letto.
    Per quattro mill'anni s'attese
    quest'ora su tutte le ore.
    È nato! È nato il Signore!
    È nato nel nostro paese!
    Risplende d'un astro divino
    La notte che già fu sì buia.
    È nato il Sovrano Bambino.

    È nato!
    Alleluja! Alleluja!

    (Racconto di Natale di Guido Gozzano)

    [SM=x2039724]

    Letteratura di Natale:

    LA NOTTE SANTA
    Tema Natale - brano di Guido Gozzano


    - Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
    Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
    Presso quell'osteria potremo riposare,
    ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

    Il campanile scocca
    lentamente le sei.

    - Avete un po' di posto, o voi del Caval Grigio?
    Un po' di posto per me e per Giuseppe?
    - Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
    son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

    Il campanile scocca
    lentamente le sette.

    - Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
    Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
    - Tutto l'albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
    Tentate al Cervo Bianco, quell'osteria più sotto.

    Il campanile scocca
    lentamente le otto.

    - O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
    avete per dormire? Non ci mandate altrove!
    - S'attende la cometa. Tutto l'albergo ho pieno
    d'astronomi e di dotti, qui giunti d'ogni dove.

    Il campanile scocca
    lentamente le nove.

    - Ostessa dei Tre Merli, pietà d'una sorella!
    Pensate in quale stato e quanta strada feci!
    - Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
    Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...

    Il campanile scocca
    lentamente le dieci.

    - Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?
    Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
    L'albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
    non amo la miscela dell'alta e bassa gente.

    Il campanile scocca
    le undici lentamente.

    La neve! - ecco una stalla! - Avrà posto per due?
    - Che freddo! - Siamo a sosta - Ma quanta neve, quanta!
    Un po' ci scalderanno quell'asino e quel bue...
    Maria già trascolora, divinamente affranta...

    Il campanile scocca
    La Mezzanotte Santa.

    È nato!
    Alleluja! Alleluja!

    È nato il Sovrano Bambino.
    La notte, che già fu sì buia,
    risplende d'un astro divino.
    Orsù, cornamuse, più gaje
    suonate; squillate, campane!
    Venite, pastori e massaie,
    o genti vicine e lontane!

    Non sete, non molli tappeti,
    ma, come nei libri hanno detto
    da quattro mill'anni i Profeti,
    un poco di paglia ha per letto.
    Per quattro mill'anni s'attese
    quest'ora su tutte le ore.
    È nato! È nato il Signore!
    È nato nel nostro paese!
    Risplende d'un astro divino
    La notte che già fu sì buia.
    È nato il Sovrano Bambino.

    È nato!
    Alleluja! Alleluja!

    (Racconto di Natale di Guido Gozzano)
    [SM=x2039724]

    Letteratura di Natale:
    SOGNO DI NATALE

    Tema Natale - brano di Luigi Pirandello


    Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l'impressione d'una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l'anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors'anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.

    Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori... E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo:

    - Buon Natale - e sparivo...

    Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d'incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d'un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.

    Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l'immagine di lui m'attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m'arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.

    Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d'una luce interiore, sorvolava su un'alta siepe di rovi, che s'allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant'egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.
    Dall'irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d'una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell'immenso arco dell'orizzonte. Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.
    A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d'una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie.

    - Non dormono... - mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d'odio e d'invidia pronunziate nell'interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l'impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: - Anche per costoro io son morto...

    Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch'ero la sua ombra per terra, non mi disse:

    - Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.

    Era una chiesa magnifica, un'immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d'oro alla volta, piena d'una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l'altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d'incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d'argento splendevano a ogni gesto le brusche d'oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.

    - E per costoro - disse Gesù entro di me - sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.

    Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:

    - Cerco un'anima, in cui rivivere. Tu vedi ch'ìo son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l'anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo... Cerco un'anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d'ogn'altro di buona volontà.

    - La città, Gesù? - io risposi sgomento. - E la casa e i miei cari e i miei sogni?
    - Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari.
    - Ah! io non posso, Gesù... - feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.

    Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l'impressione sul mio capo inchinato, m'avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. E qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.

    (Racconto di Natale di Luigi Pirandello)
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    Merlino
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    Letteratura di Natale:

    IL PRESEPE
    Tema Natale - brano di Salvatore Quasimodo

    Natale. Guardo il presepe scolpito
    dove sono i pastori appena giunti
    alla povera stalla di Betlemme.

    Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
    salutano il potente Re del mondo.

    Pace nella finzione e nel silenzio
    delle figure in legno ed ecco i vecchi
    del villaggio e la stalla che risplende
    e l'asinello di colore azzurro.

    (Racconto di Natale di Salvatore Quasimodo
    [SM=x2039724]

    Letteratura di Natale:

    IL NATALE DI MARTIN
    Tema Natale - brano di Leone Tolstoj


    In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.

    Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
    - Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
    Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
    Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
    E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi».
    Martin rifletté. - Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? - Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
    All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole: - Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
    L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.

    Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno. - Entra· disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
    - Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
    - Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
    Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
    - Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
    - Ieri sera- rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".

    Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.
    Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa. - Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
    Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
    Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
    La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
    - Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.
    Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po', vide una donna che vendeva mete da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
    Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
    La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
    Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
    - Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
    - Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
    - Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
    Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.

    La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
    Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
    Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio: - Martin, non mi riconosci?
    - Chi sei? - chiese Martin.
    - Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
    - Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
    - Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
    Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.
    Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.

    (Racconto di Natale di Leone Tolstoj)












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    Indice
    dei racconti post sopra


    Letteratura di Natale

    Alcuni classici della letteratura e brani d'autore con a tema il Natale e le festività natalizie.

    Tema di Natale da "UN CANTO DI NATALE" di Charles Dickens:

    Canto di Natale
    Tema Natale - L'AGRIFOGLIO di Gina Marzetti Noventa:

    L'agrifoglio
    Tema Natale - LA FESTA DI NATALE di Carlo Collodi:

    La Festa di Natale
    Tema Natale - IL DONO DI NATALE di Grazia Deledda:

    Il dono di Natale
    Tema Natale - I FIGLI DI BABBO NATALE di Italo Calvino:

    I figli di Babbo Natale
    Tema Epifania - NATALE di Giuseppe Ungaretti:

    Natale
    Tema Natale - IL NATALE di Alessandro Manzoni:

    Il Natale
    Tema Natale - NATALE, UN GIORNO di Hirokazu Ogura:

    Natale, un Giorno
    Tema Epifania - LA MANGIATOIA di Ai Qing:

    La Mangiatoia
    Tema Epifania - LA NOTTE SANTA di Guido Gozzano:

    La notte Santa
    Tema Natale - SOGNO DI NATALE di Luigi Pirandello:

    Sogno di Natale
    Tema Natale - NATALE A REGALPETRA di Leonardo Sciascia:

    Natale a Ragalpetra
    Tema Epifania - IL PRESEPE di Salvatore Quasimodo:

    Il Presepe
    Tema Natale - IL NATALE DI MARTIN di Leone Tolstoj:

    Il Natale di Martin
    Tolstoy