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Mondi dei Misteri

Brani sul Natale - racconti

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    VANGELO APOCRIFO DELLO PSEUDO-MATTEO




    Nascita di Gesù. Dopo un certo periodo accadde che si facesse un censimento a motivo di un editto di Cesare Augusto, e tutta la terra si fece iscrivere, ognuno nella sua patria. Questo censimento fu fatto dal preside della Siria, Cirino. Fu dunque necessario che Giuseppe, con Maria, si facesse iscrivere a Betlemme, poiché Giuseppe e Maria erano di qui, della tribù di Giuda e della casata di Davide.

    Mentre Giuseppe e Maria camminavano lungo la strada che conduce a Betlemme, Maria disse a Giuseppe: "Vedo davanti a me due popoli, uno piange e l'altro è contento". Giuseppe le rispose: "Stattene seduta sul tuo giumento e non dire parole superflue". Apparve poi davanti a loro un bel giovane vestito di abito bianco, e disse a Giuseppe: "Perché hai detto che erano parole superflue quelle dette da Maria a proposito dei due popoli? Vide infatti il popolo giudaico piangere, essendosi allontanato dal suo Dio, e il popolo pagano gioire, perché oramai si è accostato e avvicinato al Signore, secondo quanto aveva promesso ai padri nostri Abramo, Isacco, e Giacobbe: difatti, è giunto il tempo nel quale, nella discendenza di Abramo, è concessa la benedizione a tutte le genti".

    Ciò detto, l'angelo ordinò di fermare il giumento, essendo giunto il tempo di partorire; comandò poi alla beata Maria di discendere dall'animale e di entrare in una grotta sotto una caverna nella quale non entrava mai la luce ma c'erano sempre tenebre, non potendo ricevere la luce del giorno. Allorché la beata Maria entrò in essa, tutta si illuminò di splendore quasi fosse l'ora sesta del giorno. La luce divina illuminò la grotta in modo tale che né di giorno né di notte, fino a quando vi rimase la beata Maria, la luce non mancò. Qui generò un maschio, circondata dagli angeli mentre nasceva. Quando nacque stette ritto sui suoi piedi, ed essi lo adorarono dicendo: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà".

    Era infatti giunta la nascita del Signore, e Giuseppe era andato alla ricerca di ostetriche. Trovatele, ritornò alla grotta e trovò Maria con il bambino che aveva generato. Giuseppe disse alla beata Maria: "Ti ho condotto le ostetriche Zelomi e Salome, rimaste davanti all'ingresso della grotta non osando entrare qui a motivo del grande splendore". A queste parole la beata Maria sorrise. Giuseppe le disse: "Non sorridere, ma sii prudente, lasciati visitare affinché vedano se, per caso, tu abbia bisogno di qualche cura". Allora ordinò loro di entrare. Entrò Zelomi; Salome non entrò. Zelomi disse a Maria: "Permettimi di toccarti". Dopo che lei si lasciò esaminare, l'ostetrica esclamò a gran voce dicendo: "Signore, Signore grande, abbi pietà. Mai si è udito né mai si è sospettato che le mammelle possano essere piene di latte perché è nato un maschio, e la madre sia rimasta vergine. Sul neonato non vi à alcuna macchia di sangue e la partoriente non ha sentito dolore alcuno. Ha concepito vergine, vergine ha generato e vergine è rimasta".

    All'udire questa voce, Salome disse: "Permetti che ti tocchi e sperimenti se è vero quanto disse Zelomi". Dopo che la beata Maria concesse di lasciarsi toccare, Salome mise la sua mano. Ma quando ritrasse la mano che aveva toccato, la mano inaridì e per il grande dolore incominciò a piangere e ad angustiarsi disperatamente gridando: "Signore Dio, tu sai che io ti ho temuto sempre, e ho curato i poveri senza ricompensa, non ho mai preso nulla dalle vedove e dall'orfano, e il bisognoso non l'ho mai lasciato andare via da me a mani vuote. Ma ora eccomi diventata miserabile a motivo della mia incredulità, perché volli, senza motivo, provare la tua vergine".

    Mentre così parlava apparve a fianco di lei un giovane di grande splendore, e le disse: "Avvicinati al bambino, adoralo, toccalo con la tua mano ed egli ti salverà: egli infatti è il Salvatore del mondo e di tutti coloro che in lui sperano". Subito lei si avvicinò al bambino e, adorandolo, toccò un lembo dei panni nei quali era avvolto, e subito la sua mano guari. Uscendo fuori incominciò a gridare le cose mirabili che aveva visto e sperimentato, e come era stata guarita; molti credettero a causa della sua predicazione.

    Anche i pastori di pecore asserivano di avere visto degli angeli che, nel cuore della notte, cantavano un inno, lodavano il Dio del cielo e dicevano che era nato il Salvatore di tutti, che è Cristo Signore, nel quale sarà ridata la salvezza a Israele.

    Una enorme stella splendeva dalla sera al mattino sopra la grotta; così grande non si era mai vista dalla creazione del mondo. I profeti che erano a Gerusalemme dicevano che questa stella segnalava la nascita di Cristo, che avrebbe realizzato la promessa fatta non solo a Israele, ma anche a tutte le genti.

    Tre giorni dopo la nascita del Signore nostro Gesù Cristo, la beatissima Maria uscì dalla grotta ed entrò in una stalla, depose il bambino in una mangiatoia, ove il bue e l'asino l'adorarono. Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Isaia, con le parole: "il bue riconobbe il suo padrone, e l'asino la mangiatoia del suo signore". Gli stessi animali, il bue e l'asino, lo avevano in mezzo a loro e lo adoravano di continuo. Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Abacuc, con le parole: "Ti farai conoscere in mezzo a due animali".

    Giuseppe con Maria, rimase nello stesso luogo per tre giorni.

    il sesto giorno entrarono in Betlemme, dove passarono il giorno settimo. l’ottavo giorno circoncisero il bambino e gli diedero nome "Gesù", come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito. Terminati i giorni della purificazione di Maria, secondo la Legge di Mosè, Giuseppe condusse il bambino al tempio del Signore. Quando il bambino ricevette la "peritomè" ("peritomo" significa circoncisione), offrirono un paio di tortore o due piccini di colombe.

    Nel tempio c era un certo uomo di Dio, perfetto e giusto, di nome Simeone, di anni centododici. Questi aveva ricevuto da Dio là promessa che non avrebbe gustato la morte senza avere prima visto, vivo in carne, il Cristo figlio di Dio. Visto il bambino, egli esclamò a gran voce: "Dio visitò il suo popolo, e il Signore adempì la sua promessa". E subito l'adorò. Dopo lo prese nel suo mantello e baciando i suoi piedi, disse: "Ora, o Signore, lascia andare in pace il tuo servo poiché i miei occhi videro la tua salvezza che hai preparato al cospetto di tutti i popoli, luce per illuminare le genti, e gloria del tuo popolo, Israele".

    Nel tempio c'era pure la profetessa di nome Anna, figlia di Fanuel, della tribù di Ase che aveva vissuto con suo marito sette anni dalla sua verginità: ed era vedova già da ottantaquattro anni. Non si era mai allontanata dal tempio del Signore, ed era dedita a digiuni e preghiere. Anche lei adorò il bambino affermando che in lui c'è la redenzione del mondo.

    I magi e la fuga in Egitto. Trascorso il secondo anno, dei magi vennero dall'Oriente a Gerusalemme portando grandi doni. E subito interrogarono i Giudei, dicendo: "Dov'è il re che vi e nato? In Oriente infatti abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo". Questa voce giunse al re Erode e lo spaventò così tanto che radunò scribi, farisei e dottori del popolo per interrogarli dove, secondo i profeti, sarebbe nato Cristo. Essi risposero: "In Betlemme di Giuda. Sta scritto infatti: "E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la più piccola tra i principi di Giuda. Da te, invero, nascerà il duce che reggerà il mio popolo Israele"". Erode allora convocò i magi presso di sé e da loro indagò diligentemente quando era apparsa ad essi la stella. Mandandoli poi in Betlemme, disse: "Andate e informatevi diligentemente sul bambino. Quando lo troverete, fatemelo sapere affinché anch'io venga ad adorarlo".

    Mentre i magi se ne andavano, per la strada apparve loro la stella che, precedendoli fino a quando giunsero ove era il bambino, fu quasi la loro guida. Vedendo la stella, i magi si rallegrarono con grande gioia e, entrati nella casa, trovarono il bambino Gesù seduto sul grembo di sua madre. Aprirono allora i loro tesori e regalarono grandi doni alla beata Maria e a Giuseppe. Al bambino poi offrirono ciascuno una moneta d'oro; così pure uno offri oro, un altro incenso, il terzo mirra.

    Volevano ritornare dal re Erode, ma in sonno furono avvertiti da un angelo di non ritornare da Erode. Per un'altra strada se ne ritornarono nella loro regione.
    [SM=x2039724]

    DIALOGO TRA I MAGI E MARIA
    di Sant'Efrem Siro


    I magi: «A noi una stella ha annunciato
    che Colui che è nato è il re dei cieli. Tuo figlio ha potere sugli astri,
    essi sorgono soltanto al suo ordine».

    Maria: «E io vi dirò un altro segreto,
    perché siate convinti:
    restando vergine, io ho partorito mio figlio.
    Egli è il figlio di Dio. Andate, annunciatelo! »

    I magi: «Anche la stella ce l'aveva fatto conoscere,
    che figlio di Dio e Signore è il tuo figlio».

    Maria: «Altezze e abissi ne rendon testimonianza;
    tutti gli angeli e tutte le stelle:
    Egli è il figlio di Dio e il Signore.
    Portate l'annuncio nelle vostre contrade,
    che la pace si moltiplichi nel vostro paese».

    1 magi: «Che la pace del tuo figlio
    ci conduca nel nostro paese,
    con sicurezza, come noi siamo venuti,
    e quando il suo potere dominerà il mondo,
    che Egli visiti e santifichi la nostra terra».

    Maria: «Esulti la Chiesa e canti la gloria,
    per la nascita del figlio dell'Altissirno,
    la cui aurora ha rischiarato cielo e terra.
    Benedetto Colui la cui nascita rallegra l'universo! »


    NELLA NOTTE DI NATALE
    di Sant'Ambrogio


    Ascolta, tu che governi Israele,
    che siedi sopra i cherubini;
    compari in faccia ad Efraim, scuoti
    la tua potenza, e vieni.

    Vieni, redentore dei popoli,
    vanta il parto da vergine;
    ne stupisca ogni tempo:
    parto che si conviene a Dio.

    Non da seme maschile
    ma per mistico fiato
    si è fatto carne il Verbo di Dio
    e il frutto del ventre è fiorito.

    Il grembo della vergine si gonfia:
    chiostro permane di pudore.
    Delle virtù risplendono i vessilli:
    in quel tempio si agita Dio.

    Dal suo talamo venga,
    regale sala del pudore,
    il gigante di duplice natura
    per correre animoso la sua strada:

    l'uscita sua dal Padre,
    il suo ritorno al Padre,
    la corsa fino agli inferi,
    e il suo ritorno alla divina sede.

    Uguale al sommo Padre
    recingiti col trionfo della carne
    tu che rafforzi di valore eterno
    le debolezze della nostra carne.

    Già splende il tuo presepe
    e la notte respira la sua luce,
    che tenebra nessuna offuschi mai
    e d'incessante fede possa splendere.

    [SM=x2039725]

    LE DUE NASCITE

    di Sant'Agostino




    1. Celebriamo oggi un giorno di festa, una solennità che ritorna ogni anno, il Natale del Signore Nostro Gesù Cristo: la Verità è gennogliata dalla terra (salmo 84, 12), il giorno da giorno è sorto nel nostro giorno: rallegriamoci ed esultiamo in esso (salmo 117, 24). La fede dei cristiani comprende quale vantaggio ci ha recato l'u- miltà di un Dio così sublime, ma ciò è lontano dal cuore degli empi, poiché Dio ha tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le ha rivelate ai piccoli (Matteo, 11, 25). Rimangano perciò fedeli gli umili all'umiltà di Dio, affinché con questo così valido aiuto - quasi un giumento che soccorre alla loro debolezza - possano pervenire all'altezza di Dio. I sapienti e gli intelligenti', invece, ricercano sì le cose grandi di Dio, ma non credono a quelle umili, e pertanto, proprio perché trascurano queste ultime, non sanno neppure pervenire a quelle. Vuoti e volubili, gonfi d'orgoglio, rimangono come sospesi tra cielo e terra, quasi afferrati dai soffi del vento. Sono certamente sapienti e intelligenti, ma lo sono secondo questo mondo, non secondo colui che ha creato il mondo. Se infatti fosse in loro la vera sapienza, quella che proviene da Dio, che anzi è Dio, comprenderebbero che Dio poteva assumere un corpo senza, per questo, mutarsi in corpo; comprenderebbero che Dio ha assunto ciò che non era, pur rimanendo ciò che era; che è venuto a noi assumendo la natura umana senza per questo allontanarsi dal Padre; che è rimasto ciò che da sempre è ed è apparso a noi nella nostra stessa natura; che ha nascosto la sua potenza in un corpo di bambino senza per questo sottrarla al mondo. Come l'intero uni- verso ha bisogno di lui che rimane presso il Padre, così il parto della Vergine ha bisogno di lui che viene a noi. La vergine madre è la prova della sua potenza: vergine prima di concepire, vergine dopo aver partorito; fu trovata, non resa, incinta; fu incinta di un maschio senza l'intervento di un maschio, ed è più beata e più mirabile ancora per aver ricevuto il dono della fecondità senza perdere la sua integrità. Ma quei sapienti preferiscono ritenere inventato, non realmente accaduto, un così grande núracolo. E così, a proposito di Cristo uomo e Dio, per non poter credere alla sua natura umana, la disprezzano, e non potendo disprezzare quella divina, non vi credono. A noi invece, quanto più essi la disprezza- no, tanto più è accetto nell'umiltà di Dio quel suo corpo di uomo, e quanto più a quelli appare impossibile, tanto più crediamo opera divina il parto di una vergine che ha generato un bambino.

    2. Celebriarno dunque il Natale del Signore con la dovuta solennità e una partecipazione numerosa. Esultino uomini e donne: Cristo è nato uomo, è nato da una donna: entrambi i sessi così sono stati onorati. Si trasformi dunque nel secondo uomo chi nel primo uomo, cioè Adamo, era stato precedentemente condannato (cfr. 1 Corinzi, 15, 49). Una donna ci aveva indotti alla morte, una donna ci ha generato la vita. È nata una carne simile a quella del peccato (Romani 8, 3), perché da essa venisse purificata la carne del peccato. Non si condanni dunque la carne, ma, affinché la natura viva, muoia la colpa: egli infatti è nato senza colpa, perché chi è stato nella colpa possa rinascere in lui.
    Esultate, giovani che avete scelto la vita consacrata, che avete deciso di seguire Cristo in modo speciale e non vi siete curati del matrimonio. Colui che avete tro- vato da seguire non giunse a voi attraverso l'uso del matrimonio proprio per darvi la capacità di saper rinunciare a ciò attraverso cui siete venuti al mondo. Voi infatti siete.venuti al mondo attraverso le nozze: Cristo, invece, senza queste nozze, è venuto alle nozze spirituali, e vi ha donato di saper rinunciare alle nozze perché vi ha chiamati a nozze speciali. Per questo non cercate le nozze, dalle quali pur siete nati: perché avete amato più degli altri colui che non è nato da nozze carnali.
    Esultate, vergini consacrate: la Vergine vi ha generato chi voi potete sposare senza perdere l'integrità: non potete perdere ciò che amate né quando lo concepite né quando lo partorite.
    Rallegratevi, voi giusti: è il Natale di colui che giustifica; rallegratevi voi che siete deboli e infemi: è il Natale di colui che risana; rallegratevi, voi che siete prigionieri, è il Natale di colui che libera; rallegratevi voi che siete schiavi: è il Natale di colui che è Signore. Esultate, voi liberi, è il Natale del liberatore; rallegratevi voi cristiani tutti: è il Natale di Cristo!

    3. Cristo, che nato dal Padre ha creato tutti i tempi, nascendo da una madre ha consacrato e consegnato questo giorno a tutti i tempi. La prima nascita non ebbe bisogno di una madre, la seconda non richiese l'intervento di un padre. Cristo quindi è nato e da un padre e da una madre, e senza un padre e senza una madre: da un padre, come Dio, da una madre, come uomo; senza madre come Dio, senza padre come uomo: Chi potrà, dunque, narrare la sua nascita? (Isaia 53, 8), sia la prima avvenuta senza tempo, sia questa terrena, avvenuta senza se- me di uomo: la prima senza inizio, la seconda senza un modello; la prima che fu sempre, questa che avvenne in un momento preciso del tempo; la prima che non ha fi- ne, questa che inizia dove termina?

    4. A ragione dunque i profeti annunciarono prima che nascesse e i cieli e gli angeli quando fu nato. Giaceva in una mangiatoia, ed era colui che regge il mondo; appariva come un bambino che non parlava, ed era la Parola. colui che i cieli non possono contenere, era portato nel grembo di una donna: Maria sorreggeva colui che è il nostro re, portava in grembo colui nel quale viviamo, allattava colui che è nostro pane. O palese debolezza e mirabile umiltà quella nella quale la Divinità volle celarsi! Con la sua potenza sorreggeva la madre alla quale sottostava come bambino; nutriva della sua verità colei al cui seno succhiava! Ci ricolmi dei suoi doni colui che non disdegnò di iniziare la vita umana come tutti noi uomini, e ci renda figli di Dio colui che per noi volle diventare figlio dell'uomo.


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    Merlino
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    00 24/11/2009 18:34



    INNO PER NATALE

    di San Romano il melode


    Colui che prima dell'astro del mattino
    fu generato dal Padre senza madre,
    sulla terra senza intervento di padre si è incarnato oggi da te:

    onde la stella
    reca il lieto annuncio ai magi
    e gli angeli
    con i pastori inneggiano
    al tuo ineffabile parto,
    Piena di grazia.

    La vite che fece germogliare
    il grappolo non coltivato
    fra le braccia come su rami
    lo recava e diceva:

    « Tu sei il mio frutto, tu la mia vita,
    tu dal quale conobbi
    che sono ciò che ero,
    tu il mio Dio;

    poiché vedo immutato
    il sigillo della mia verginità,
    te proclamo l'immutabile
    Verbo fatto carne.

    Non conosco corruzione,
    te conosco liberatore dalla corruzione,
    poiché casta rimango
    dopo che tu da me sei nato.

    Ché come trovasti il mio ventre
    così l'hai lasciato,
    conservandolo intatto;
    perciò esulta
    tutto il creato a me gridando:
    Piena di grazia.

    Non respingo la tua grazia,
    di cui ho esperienza, o Signore;
    non oscuro la dignità
    che conseguii generandoti:

    ché del mondo sono sovrana,
    e poiché la tua potenza
    nel mio seno portai
    su tutto l'universo domino.

    Trasformasti la mia piccolezza
    con la tua condiscendenza;
    te stesso umiliasti
    e innalzasti la mia stirpe.

    Rallegratevi con me
    ora, terra e cielo,
    poiché il vostro fattoreio porto fra le braccia.

    O terrigeni, deponete
    le afflizioni,
    mirando la gioia
    che feci sbocciare dal mio seno
    incontaminato, ed ebbi il nome
    di Piena di grazia ».

    Mentre così inneggiava
    Maria a colui che aveva generato,e blandiva il pargolo
    che sola aveva partorito,

    la udì colei che nelle doglie
    procreò i figli,
    Eva, e gioendo ad Adamo
    essa grida:

    « Chi è colei che le mie orecchie ora ha fatto echeggiare,
    quella in cui speravo,
    una vergine che genera
    il riscatto dalla maledizione?

    Di lei la voce da sola
    ha sciolto le mie pene;
    ed il suo parto
    ha ferito il mio feritore;

    questa è colei che predisse
    il figlio di Amos,
    la verga di Iesse
    che per me ha fatto germogliare un virgulto,
    citandomi del quale non perirò,
    la Piena di grazia.

    Odi la rondine
    che all'alba per me canta;
    il sonno simile a morte
    O Adamo lascia e sorgi.

    Ascolta me tua moglie:
    io, che un tempo
    procurai la caduta ai mortali
    ora li fo risollevare

    Considera il prodigio:
    mira la vergine
    che col suo parto
    cura la tua ferita.

    Me una volta
    vide il serpente e tripudia,
    ma ora, vedendo
    coloro che da noi son nati, fugge strisciando.

    Contro di me innalzò
    la testa;
    ma ora umiliato
    lusinga, non deride,
    temendo colui che fu generato
    dalla Piena di grazia »

    Adamo, udite le parole
    che la consorte tessé,
    dalle palpebre il peso
    subito deposto,

    si solleva come da sonno,
    e aperto l'orecchio
    che la disubbidienza aveva ostruito,
    così grida:

    « Una melodiosa canzone ascolto,
    un delizioso gorgheggio,
    ma del canto
    la voce ora non mi rallegra:

    poiché è una donna,
    di cui temo la favella;
    sono nel cimento,
    perciò temo la donna;

    la musica mi seduce,
    dolce qual è;
    ma lo strumento mi turba,
    che non abbia ad ingannarmi come già altra volta,

    nuova vergogna aggiungendo
    la Piena di grazia ».

    « Lasciati rassicurare, o sposo,
    dalle parole della tua consorte:
    non mi troverai ora
    a suggerirti amari consigli:

    le vecchie cose passarono
    e tutto nuovo
    mostra di Maria
    il figlio, Cristo.

    Della sua rugiada gònfiati
    e subito ora fiorisci,
    come spiga sollevati
    poiché la primavera ti ha raggiunto,

    Gesù Cristo,
    spirando quale dolce zeffiro.
    il secco ardore
    fuggendo,

    orsú, seguimi
    verso Maria
    e i suoi immacolati
    piedi tocca ora con me,
    e tosto si moverà a compassione
    la Piena di grazia»

    « Riconobbi, o donna, la primavera
    e le delizie sento
    da cui un dì precipitai,
    poiché vedo un altro nuovo Eden,

    la Vergine, che
    reca nel seno
    lo stesso legno della vita,
    quello che un tempo
    il santo Cherubino custodiva
    e mi impediva di toccare:
    questo dunque intatto
    vedendo io germogliare,

    ho sentito l'aura,
    o sposa, vivificatrice,
    che me che ero cenere
    e fango senz'anima

    ha reso vivente.
    Ora dalla sua
    fragranza irrobustito
    mi avanzerò verso colei che fiorisce
    del frutto della nostra vita,
    la Piena di grazia.

    Ecco, sono ai tuoi piedi,
    Vergine, madre senza macchia,
    e in me tutta la mia stirpe
    alle tue orme si prostra:

    non sdegnare la madre,
    poiché il figlio
    tuo rigenerò ora
    quelli che nella corruzione nacquero
    e della morte furon preda
    per colpa di Adamo, il primo uomo:
    abbi pietà, o figlia,
    del padre tuo che geme.

    Le mie lagrime
    mirando, muoviti a compassione di me
    ed ai lamenti piega
    l'orecchio tuo benignamente.

    Tu vedi i cenci
    che indosso,
    che il serpente tessé per me:
    muta la mia miseria
    dinanzi a colui che generasti,
    Piena di grazia ».

    « Sì, speranza della mia anima,
    ascolta anche me, Eva,
    e di colei che in doglie partorisce
    la vergogna disperdi,

    ché tu sai come maggiormente
    io misera
    per i lamenti di Adamo
    soffro nell'anima;

    Poiché egli, memore delle delizie,
    contro di me si scaglia
    ingiuriandomi: "O magari
    non fossi germogliata dal mio fianco!

    Meglio sarebbe stato non prendere
    te in mio aiuto,
    ché non sarei precipitato
    ora in questo abisso".

    E così, non riuscendo a sopportare
    le rampogne
    e l'oltraggio,
    piego il collo
    finché tu non mi risollevi,
    Piena di grazia».

    Gli occhi di Maria,
    mirando Eva
    e volgendosi ad Adamo
    al pianto eran sforzati;

    pure resiste e s'adopra
    a vincer la natura
    colei che oltre natura il Cristo
    ebbe qual figlio,

    ma il cuore avea straziato
    dalla pietà per gli avi,
    ché al Misericordioso
    pietosa madre si addiceva.

    Perciò ad essi disse:
    «Cessate dai vostri lamenti,
    ed ecco vostra ambasciatrice
    mi faccio presso colui che da me è nato;

    scacciate dunque
    il cordoglio,
    poiché io ho generato la gioia;
    per questo i regni del dolore
    venni ora a devastare,
    la Piena di grazia ».

    Ho un figlio pietoso
    e molto misericordioso,
    da quanto conobbi per prova;
    confido nella sua indulgenza.

    Egli è fuoco, e pure abitò
    nel mio seno,
    e non arse
    me misera.

    Come un padre ha pietà per i suoi figli,
    così il mio figliuolo ha pietà
    di coloro che lo temono,
    secondo che Davide profetizzò;

    di lagrimare dunque
    cessate, e lasciate che io
    vostra avvocata
    diventi presso il mio figlio.

    Di gioia è infatti causa
    colui che è stato generato,
    il Dio prima dei secoli:
    state tranquilli, non piangete:
    a lui vado,
    la Piena di grazia ».

    Poi che con queste parole Maria,
    misericordiosa qual è,
    ebbe confortato Eva
    e il suo consorte,

    si avvicina alla mangiatoia,
    piega il capo
    e supplichevole al figlio
    così dice:

    « Poiché me, o figlio, innalzasti
    con la tua condiscendenza,
    la mia misera stirpe
    per mezzo mio ora ti prega.

    Adamo a me
    venne lamentandosi amaramente,
    ed Eva con lui
    gemente s'unisce al lamento.

    Colpevole ne è
    il serpente,

    che li denudò dell'onore;
    perciò di esser ricoperti
    chiedono, a me gridando:
    Piena di grazia ».

    Come tali preghiere
    rivolse l'immacolata
    al Dio giacente nella greppia,
    egli accolse e le sottoscrisse,

    e i suoi ultimi disegni spiegando
    dice: « O madre,
    a causa tua e per tuo mezzo
    io li salvo:

    se non fossi venuto per salvare costoro
    non avrei abitato in te,
    non avrei brillato in te,
    non saresti stata chiamata mia madre.

    Nella mangiatoia io
    per la tua stirpe dimoro,
    e dal tuo seno
    per mia volontà suggo il latte.

    Tra le braccia mi porti
    per essi:
    quelli che i Cherubini non vedono
    ecco tu miri e porti,
    e come figlio vezzeggi,
    Piena di grazia.

    Una madre in te acquistai
    io artefice della creazione,
    e come pargolo cresco
    io che perfetto da perfetto procedo;

    nelle fasce sono avvolto
    per quelli che un tempo
    tuniche di pelle
    indossarono;

    la grotta mi è gradita
    per coloro che odiarono
    le delizie e l'Eden
    ed amarono la corruzione,

    e trasgredirono
    il vivificante comando;
    discesi sulla terra
    perché essi avessero la vita eterna;

    ma se ancora che io sarò crocifisso
    tu sapessi, o santa,
    e che morirò per essi,
    con tutti gli elementi
    saresti sconvolta e piangeresti,
    Piena di grazia ».

    Ma poi che ebbe ciò detto
    quegli che ha creato ogni lingua,
    e tosto ebbe accolto
    la preghiera della madre,

    ancora disse Maria:
    « Se parlerò,
    non ti adirare con me che son fango,
    o creatore:

    ché come a figlio parlerò liberamente,
    ardisco come madre:
    tu a me con la tua nascita
    ogni ardire hai dato.

    Ciò che ti accingi a compiere
    cosa è voglio ora sapere;
    non nascondermi
    la tua volontà che è dai secoli.

    Tutto ti generai:
    dimmi ora il disegno
    che hai riguardo a noi,
    affinché io apprenda anche da ciò
    qual grazia ebbi in sorte
    io piena di grazia ».

    « Son vinto dall'amore
    che ho verso l'uomo »,
    il creatore rispose;
    « io, ancella e madre mia,

    non voglio affliggerti, e ti svelerò
    ciò che voglio compiere,
    e curerò la tua anima,
    o Maria.

    Quegli che è fra le tue mani
    con le mani inchiodate
    vedrai fra poco,
    perché amo la tua stirpe.

    Quegli che tu allatti
    altri abbevereranno di fiele;
    quegli che baci
    sarà riempito di sputi;

    quegli che chiamasti vita
    lo potrai vedere
    appeso alla croce
    e lo piangerai come morto;
    ma mi abbraccerai risorto,
    Piena di grazia.

    Di tutto questo prova
    per mio volere farò,
    e di tutto ciò causa
    sarà la disposizione

    che da tempo antico fino ad oggi
    verso gli uomini
    mostrai qual Dio,
    cercando la loro salvezza-.

    Maria come udì ciò
    dal profondo gemette,
    gridando: « O mio grappolo,
    che non ti schiaccino gli empi!

    Ti ho fatto germogliare,
    che non veda del mio
    figliuolo l'uccisione! »
    Ma egli a lei disse:

    « Cessa, madre, dal piangere
    per quello che ignori,
    perché, se ciò non si compisse,
    perirebbero tutti costoro
    per cui tu mi supplichi,
    Piena di grazia.

    Sonno considera che sia
    la mia morte, o madre:
    poiché tre giorni passerò
    nella tomba, di mia volontà,

    e dopo ti apparirò
    risorto,
    per il rinnovamento della terra
    e di coloro che sono dalla terra.

    Questo, o madre, a tutti annuncia,
    questo sia il tuo tesoro,
    in virtù di questo regna,
    per questo gioisci ».

    Mosse subito
    Maria verso Adamo,
    e, la buona novella
    recando ad Eva, dice:

    « Abbiate pazienza
    ancora un poco,
    poiché avete udito

    ciò che egli ha annunciato di voler soffrire
    per voi che a me gridate:
    Piena di grazia ».
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    Merlino
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    00 24/11/2009 18:36



    IL PRESEPIO DI GRECCIO

    di Tommaso da Celano

    da "VITA PRIMA"




    La sua aspirazione più alta, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di imitare fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l'impegno, con tutto lo slancio dell'anima e del cuore la dottrina e gli esempi del Signore nostro Gesù Cristo.
    Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l'umiltà dell'Incamazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro.
    A questo proposito è degno di perenne memoria e di devota celebrazione quello che il Santo realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale del Signore.
    C'era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei fare memoria del Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l'asinello». Appena l'ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l'occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo.
    E giunge il giorno della letizia, il tempo dell'esultanza! Per l'occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando, ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s'accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco, vede che tutto è predisposto se- condo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l'asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l'umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.
    Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. 1 frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia.
    Il Santo è lì estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l'eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima.
    Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali, perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava «il Bambino di Betlemme», e quel nome «Betlemme» lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva «Bambino di Betlemme» o «Gesù», passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.
    Vi si manifestano con abbondanza i doni dell'Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, perché, per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l'avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria.
    Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia.
    Il fieno che era stato collocato nella mangiatoia fu conservato, perché per mezzo di esso il Signore guarisse nella sua misericordia giumenti e altri animali. E davvero è avvenuto che, in quella regione, giumenti e altri animali, colpiti da diverse malattie, mangiando di quel fieno furono da esse liberati. Anzi, anche alcune donne che, durante un parto faticoso e doloroso, si posero addosso un poco di quel fieno, hanno felicemente partorito. Alla stessa maniera numerosi uomini e donne hanno ritrovato la salute.
    Oggi quel luogo è stato consacrato al Signore,e sopra il presepio è stato costruito un altare e dedicata una chiesa ad onore di san Francesco, affinché là dove un tempo gli animali hanno mangiato il fieno, ora gli uomini possano mangiare, come nutrimento dell'anima e santificazione del corpo, la carne dell'Agnello immacolato e incontaminato, Gesù Cristo nostro Signore, che con amore infinito ha donato se stesso per noi. Egli con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna eternamente glorificato nei secoli dei secoli. Amen.

    [SM=x2039724]

    IL NATALE

    di Jacopo da Varagine

    da "LA LEGENDA AUREA"

    Il nascimento del nostro Signore Jesù Cristo, secondo la carne, sì avvenne, come alcuni dicono, compiuti dal tempo d'Adamo cinque milia ducento ventinove anni; ma, come dicono altri, furono semilia anni. Ma secondo che dice Eusebio di Cesaria ne le Croniche sue furono cinque milia ducento quarantanove anni, ma si fue al tempo d'Ottaviano imperadore; il cominciamento di semilia anni sì fu trovato da Merodio maggiormente per figura che per cronica. A quel tempo che il figliuolo di Dio venne in carne tanta pace era ne l'universale mondo, che uno solo imperadore de' romani signoreggiava pacificamente tutto il mondo. Ché, sì come elli volse nascere per darci la pace dei tempo e la pace de l'eternitade, così eziandio volse che niente di meno la pace del tempo alluminasse il suo nascimento. Adunque lo 'mperadore, signoreggiante a tutto il mondo, volse sapere quante provincie e quante cittade e quante castella e quante ville e quanti uomini fossero nel mondo. Comandò adunque, come si dice ne le Storie Scolastiche, che tutti gli uomini andassero a la cittade donde erano nati; e catuno offerisse al signore de la provincia uno danaio d'argento che valesse diece danari de la usuale moneta; per lo quale danaio confessasse sé sottoposto a lo 'mperio di Roma. E faceane professione, però che quello cotale danaio portava la imagine de lo imperadore e la soprascritta del nome. Ed era detta professione in ciò che quando catuno uomo rendea al signore de la provincia il capocenso, cioè quel danaio (che così si chiamava) sì '1 poneva in sul capo suo e con la sua bocca confessava sé sottoposto a lo imperio di Roma. Onde era detta professione, cioè a dire quasi con la propria bocca confessione; e faceasi ciò dinanzi a tutto il popolo. Descrizione era detta, per ciò che '1 numero di coloro che portavano il capocenso, si era determinato per certo numero, ed era recato in iscritte. Questa discrizione fu fatta primieramente dal signore de la Sorìa ch'avea nome Cirino.
    Ed è detta la prima, imperciò che, come si trova in quelle Storie Scolastiche, prima la fece Cirino per ciò che vide [Ila provincia nel miluogo de la terra che s'abita; sì che fu provveduto che in quella si cominciò di prima e poi per l'altre contrade d'intorno. Ovvero ch'è detta la provincia la prima, cioè la prima universale, per ciò che l'altre particolare andarono innanzi. Ovvero, per la ventura, la prima de li capi ne la città era fatta dal signore, la seconda de le cittadi era fatta ne la provincia dal legato de lo 'mperadore, ma la terza de le provincie era fatta in Roma dinanzi a lo 'mperadore.
    Essendo dunque Gioseppo de la schiatta di David, sì se n'andò da Nazzarette, là dov'egli abitava, in Betleem. E con ciò fosse cosa che si approssimasse il tempo del partorire de la vergine Maria e elli non sapesse de la sua tornata, sì la prese e menonnela seco in Betleem, non volendo il tesauro commesso a lui da Dio lasciarlo in mano altrui, ma elli stesso trattarlo con le sue mani e guardarlo con grande solennitade e sollecitudine.
    E appresso n'andossi a Betleem (come racconta frate Bartolomeo, in un libro che e' compuose), dove dice che la Vergine vidde parte del popolo rallegrare e parte piangere. La qualcosa sponendogli l'angelo, sì disse: "La parte del popolo che s'allegra, si è il popolo pagano, il quale nel seme d'Abraam ricoverrà l'eternale benedizione; la parte che piange si è il popolo de' giuderi, riprovata da Dio, per li suoi mali meriti".
    Ed essendo giunti ambedue in Betleem, non poterono avere albergo, e sì perché erano poveri e sì perché gli alberghi erano già tutti presi da gli altri. Cansaronsi dunque ad una coperta la quale è detto diversorio, sotto la quale i cittadini ne' di da non lavorare si ragunavano a sedere e a ragionare insieme, e anche per lo tempio rio e' non potevano stare fuori. Gioseppo apparecchiò iveritto una mangiatoia al bue e a l'asino; ovvero, secondo che vogliono dire altri, ivi era fatta la mangiatoia per ciò che quando i foresi venivano al mercato, legavano in quel luogo i loro animali. Sì che entro la mezzanotte de la domenica la Vergine santissima partorette il suo figliuolo e sopra lo fieno lo richinòe ne la mangiatoia; lo quale fieno, come si truova ne le Storie Scolastiche, santa Elena portò poi a Roma.
    Da notare è adunque che '1 nascimento di Cristo fu fatto meravigliosamente, fu mostrato per molte guise e fu donato utilmente. Imprima dico che fu maravigliosamente fatto sì da la parte de la ingenerante, sì da la parte de lo 'ngenerato e sì da parte del modo de lo 'ngenerare. Imprima da parte de la 'ngenerante, imperciò ch'ella fu vergine innanzi al parto e dopo il parto.
    Ched ella partorisse stando vergine; per cinque modi fu mostrato. Imprima per la profezia di Isaia profeta, nel settimo capitolo: "Ecco," dice "una vergine coneeperà e partorirà". li secondo modo per la figura, [imperciò che fu ciò figurato] per la verga d'Aron, la quale fiorìo sanza ogni studio umano, e per la porta d'Ezechiel, la quale stette sempre chiusa. li terzo modo per la guardia, ché Gioseppo sì la guardò e fu testimone. de la sua verginitade. Il quarto modo per sperienza per ciò che (si come si truova ne la compilazione di Bartolomeo e pare che fosse tolto dei libro De Infantia Salvatoris) con ciò fosse cosa che '1 tempo dei partorire fosse presso, Gioseppo, avvegna che non dubitasse che Dio dovea nascere di Vergine, ma volendo tenere l'usanza del paese, si chiamò due balie; le quali ebbe l'una nome Zebel e l'altra Salomè. Si che Zebel considerando e cercando e vedendo ch'ella era vergine, sì gridò che ella avea partorito stando vergine; ma Salomè non credendo, ma volendo provare ciò, altressì ponendo la mano là, incontanente diventò arida. Ma per comandamento de l'angelo che l'apparette, sì toccò il fanciullo e tosto fue sanata. li quinto modo per lo manifestamento del miracolo: ché a Roma, sì come testimona Innocenzio papa terzo, fue pace XII anni. Onde li romani ordinarono uno tempio di pace bellissimo e puoservi la statua di Romolo. Ma chiedendo consiglio a lo Dio Apolline quanto tempo quel tempio durerebbe, ed ellino ebbero risposta che tanto durerebbe ch'una vergine parturisse. Udendo ciò dissero: "Dunque durerà eternalmente"; però che vergine partorire giammai non sarà possibile; sì che ne le reggi del tempio scrissero questo titolo: "Tempio di pace eternalmente durabit". E in quella notte che la vergine partorette,.rovinòe il tempio infino dal fondamento; e ivi è ora la chiesa di santa Maria Nuova.
    Secondariamente fu meravigliosamente fatto il nascimento da la parte de lo ingenerato. Onde dice san Bernardo: "In una medesima persona si raunarono meravigliosamente cosa eternale e cosa vecchia e cosa nuova. L'eternale ciò fu la divinità; l'antica ciò è la carne tratta d'Adamo; la nuova ciò [è] l'anima tratta di nuovo". Ancora, come dice elli medesimo: "Oggi fece Iddio tre mischiature, ovvero tre opere sì maravigliosamente singulari che tali non furono mai fatte né mai sono da fare più; ché sono congiunte insieme Dio e uomo, madre e vergine, fede e cuore umano. La prima è molto meravigliosa, ché sono congiunti insieme il fango e Dio, la maestade e la infermitade, cotanta viltade e cotanta altezza, che neuna cosa è più alta che Dio e neuna è più vile che '1 fango. La seconda neente di meno fu anche maravigliosa, ché dal secolo non fu giaminai udito che vergine veruna fosse che concepesse e partorisse e, dopo il parto, fosse vergine. La terza è più bassa che la prima e che la seconda, ma non meno forte; ché grande maraviglia fue come il cuore umano diede fede a queste due cose, e come si poté credere che Dio fosse uomo e che stesse vergine quella ch'avesse partorito". Queste cose disse san Bernardo. Il terzo modo fu meravigliosamente fatto da parte del modo de lo ingenerare, però che '1 suo parto fu sopra natura, in ciò che vergine concepette; fu sopra ragione, in ciò che ingenerò Dio; su sopra condizione umana, in ciò che partorette sanza dolore; fu sopra usanza, in ciò che coneepette di Spirito Santo, però che non ingenerò la Vergine di seme d'uomo, ma di Spirito Santo. Ché lo Spirito Santo scelse del castissimo e purissimo sangue de la Vergine e formonne il corpo di Cristo. E così mostrò Dio il quarto modo meraviglioso di fare l'uomo; però che in quattro modi mostrò Dio padre l'uomo, si come dice Anselmo: "Il primo si è sanza uomo e sanza femmina, come fece Adamo; il secondo si è d'uomo sanza femmina, e così fece Eva; il terzo si è d'uomo e di femmina, come si fa tutto die; il quarto rimaneva a fare di femmina sanza uomo, e questo è fatto oggi".
    Secondariamente il suo nascimento fue in cotale die per molte guise mostrato, per la ragione ch'avemo presa di ciò ch'ella ingenerò Dio sopra condizione umana, e di ciò ch'ella partorette Dio sopra usanza, e di ciò ch'eila concepette di Spirito Santo. Però che mostrato fu, per tutt'i gradi de le criature, ch'elli è criatura la quale ha solamente essere, sì come quella ch'è pura corporale, [come le pietre]; altra è c'ha essere e vivere, come le piante; altra è c'ha essere e vivere e sentire, come gli animali; altra è c'ha essere e vivere e sentire e discernere, come l'uomo; altra è c'ha essere e vivere e sentire e discernere e intendere, come l'angelo.
    Per tutte queste creature fue mostrato [oggi] il nascimento di Cristo. La prima criatura, cioè pura corporale, si è in tre guise, cioè oscura, trasparente e chiara. Imprima dunque fu mostrato per quella che è pura corporale oscura, sì come per la distruzione del tempio de' Romani, come detto è, e per lo cadimento de la statua di quello Romolo, la quale cadde allora e stritolossi; e, brievemente, tutti gli altri idoli e le statue che in altri luoghi n'aveva più, tutti caddero. Leggesi che Gerernia profeta, discendendo ne lo Egitto dopo la morte di Godolia, sì diede segnale a i re ovvero a' sacerdoti de l'Egitto che i loro idoli cadrebbero quando la vergine partorisse figliuolo. Per la qualcosa i sacerdoti de gli idoli, in uno segreto luogo del tempio, ordinarono una immagine di vergine portante uno garzone in grembo, e ivi sì l'adoravano. Ma richiesti poscia dal re Tolomeo, [dissero] che questo era misterio di paternale ordinamento, che i loro maggiori aveano avuto da santo profeta; e così credeano che dovesse avvenire infatti.
    Secondariamente per la pura corporale trasparente, ché in quella notte l'oscurità de l'aiere si mutò in chiaritate di dì chiaro. Anche, sì come testimonia [Orosio e] Innocenzio papa terzo, a Roma una fontana d'acqua si mutò in licore d'olio, e, uscente fuori, e' corse insino al Tevere. E la sibilla avea profetato che quando rampollasse fontana d'olio, allora nascerebbe il Salvatore.
    La terza per la pura corporale chiaritade, sì come per li corpi sopracelestiali; però che in quello dì di Natale, secondo che alcuni vogliono dire, come dice Orisostomo, adorando i magi sopra un monte, una stella apparve appresso di loro, la quale avea forma di bellissimo garzone e nel suo capo risplendea la croce; la quale, parlando a' magi, sì disse loro: "Andatene in Giudea e ivi adorate il garzone nato". Anche in quello die apparettero in oriente tre soli, i quali, a poco insieme, tornarono in uno corpo solare. In ciò significava che a tutto il mondo soprastava il conoscimento di Dio in tre persone e in una essenzia; ovvero che quelli era nato nel quale erano tre cose in una persona, cioè divinità, carne e anima. Ma ne le Storie Scolastiche si dice che questi tre soli apparvero non il dì di Natale, ma per alcuno tempo dinanzi, cioè dopo la morte di Giulio Cesare; le quali cose eziandio afferma Eusebio ne le sue Croniche.
    Anche Ottaviano imperadore, come dice Innocenzio terzo, abbiendo sottomesso tutto '1 mondo a lo 'mperio romano, intanto piacque a' sanatori di Roma ch'elli il voleano coltivare per Domenedio loro. Ma il savio imperadore, sappiendo ch'elli era mortale, non si volse prendere nome de lo immortale Iddio; ma a loro importuno preghiere fece venire la Sibilla profetessa, volendo sapere per li suoi detti, se maggiore di lui dovesse nascere nel mondo. E con ciò fosse cosa che il die di Natale di Cristo richiedesse consiglio sopra ciò e la Sibilla stesse in orazione ne la camera de lo imperadore, entro il mezzodì apparve uno cerchio d'oro intorno dal sole, e nel mezzo del cerchio era una vergine bellissima portante uno garzone nel suo grembo. Allora la Sibilla mostrò queste cose a lo 'mperadore e, meravigliandosi molto lo 'mperadore per la detta visione, udì una boce che li disse: "Questo è l'altare del cielo". E disse a lui la Sibilla: "Questo fanciullo è maggiore di te, per ciò sì l'adora". Si che quella camera è consegrata in onore de la Vergine Maria; onde infino al dì d'oggi è chiamata santa Maria d'Ara Celi. Intendendo dunque lo 'mperadore che questo fanciullo era maggiore di sé, sì li offerette oncenso, e rifiutò da indi innanzi essere chiamato Iddio. Di questo parla Orosio: "In questo modo al tempo d'Ottaviano ne l'ora intorno a la terza, subitamente, essendo il tempo chiaro, apertamente apparve un cerchio a modo de l'arco celestiale, e attorneòe la ricondita dei sole, come se dovesse venire colui il quale sole avea fatto, e reggea il sole e tutto quanto il mondo". Di questo dice Orosio e, quello medesimo dice Eutropio.
    Secondariamente il nascimento fu mostrato e manifestato per le creature che hanno essere e vivere, come sono le piante e gli albori. Ché in questa notte (come testimonia Bartolomeo ne la sua compilazione) le vigne d'Engaddo, le quale menavano balsamo, fiorirono e feciono frutto e diedero licore.
    Nel terzo luogo fu mostrato per le criature che hanno essere, vivere e sentire, come sono gli animali, ché andando Gioseppo in Betleem con Maria, sua moglie, gravida, menò seco il bue e l'asino. Il bue forse per venderlo e pagare il trebuto per sé e per la Vergine, e de lo rimanente vivessero; l'asino forse per portarvi suso la Vergine. Sì che il bue e l'asino, per miracolo cognoscendo Iddio, con le ginocchia piegate sì lo adorarono. E innanzi al náscimento di Cristo per alquanti di, dice Eusebio, ne la Cronica sua, che arando alcuni i buoi, sì dissero a lì aratori: "Li uomini verranno meno e le biade faranno prode per se stesse".
    Nel quarto luogo fu mostrato per la creatura che ha essere, vivere e sentire e discernere, come per li pastori. E in quella ora vegghiarono i pastori sopra la greggia loro, sì come usavano di fare l'anno due volte, cioè ne le più lunghe e ne le più corte notti de l'anno. Per ciò che costumanza fu anticamente de' pagani che, in catuno solitazio, cioè quello di state, per la festa di san Giovanni Batista, e quello de verno per la festa del Natale, guardavano le vigilie de la notte per riverenza del sole. Il quale costume già era molto cresciuto appo i giuderi per Ipuso di coloro che abitano tra loro. Si che l'angelo di Dio apparve a' pastori e annunziò loro il Salvatore nato, e diede loro segnale com'eglino 2 troverebbero. E immantanente con quello angelo fu fatta la moltitudine de li angeli, che diceano: "Gioria sia a Dio ne le alte cose, e in terra sia pace a gli uomini di buona volontà". Sì che i pastori vegnendo e trovando tutto come l'angelo avea detto, sì il narrarono poi a gli altri. Così anche fu manifestato per lo 'mperadore, il quale diede allora comandamento che veruno nol chiamasse Signore, si come testimonia Orosio, forse perché vide quella visione d'intorno al sole; e ricordandosi de la rovina del tempio, e de la fontana de l'olio, intendendo ancora che nel mondo si era nato uno maggiore di lui, non volse essere chiamato né Iddio, né Signore.
    Anche fu manifesto per li soddomiti, i quali furono tutti spenti in quella notte, come dice santo Geronimo sopra quella parola: "Luce è nata a loro", ché nata fu quella luce che spense tutti coloro ch'erano maculati di quello vizio; e ciò fece Cristo per levarli di terra, acciò che ne la natura ch'elli avea presa non si trovasse da quinci innanzi tanta sozzura. Però che dice santo Agostino che, veggendo questo vizio ne l'umana natura, poco meno che non rimase d'incarnare.
    Nel quinto luogo per la criatura che ha essere, vivere, sentire, discernere e intendere, come l'angelo. Per ciò che sì come detto è: "Gli angeli sì annunziarono a pastori il nascimento di Cristo fatto".
    Nel terzo luogo il nascimento di Cristo fu dato a noi utilmente, però che '1 diavolo non ha tanta potenzia sopra noi che elli aveva prima. Onde si legge che l'abate Ugo Clunacense ne la vigilia del Natale di Cristo vidde la beata Vergine Maria tenere il figliuolo in braccio, e dicea: "Ora è il die che le scritture de' profeti sono rinnovellate. Ov'è dunque il nemico che innanzi a questo die avea potenzia sopra la generazione umana?"
    A questa voce uscì il diavolo de la terra per contrastare a le parole de la nostra Donna, ma il peccato gli mentio, per ciò che quando elli cerca le luogora de' frati, la devozione lo caccia de l'oratorio, la lezione de la Messa lo caccia del refettorio, li vili letticelli dal dormentorio, la pazienzia dal Capitolo.
    De l'utilitade del nascimento di Cristo parla san Bernardo: "Tre mali aveva la generazione umana nel principio e nel mezzo e ne la fine; cioè nel nascere e nel vivere e nel morire. Il nascere era immondo, il vivere perverso, il morire pericoloso. Venne Cristo e contro a questi tre mali recòe tre remedii, però che nacque e visse e morìo. Il suo nascimento purgòe il nostro; la sua vita ammaestròe la nostra, la sua morte distrusse la nostra". Queste cose disse san Bernardo.
    Ancora de l'utilitade di quello nascimento di Cristo dice Agostino nel libro de la Trinitade ne l'ottavo capitolo: che l'umiltà del figliuolo di Dio, la quale mostrò a noi ne la sua incarnazione, fue a noi in essemplo convenevoli, [in sacramento e in medicamento. In essempeo convenevole] il quale l'uomo tenesse in sacramento alto, per lo quale fosse sciolto lo legame dei peccato nostro; e in sommo medicamento, per lo quale l'enfiatura de la nostra superbia fosse sanata. Queste cose dice Agostino. Ché: "La superbia del primo uomo fu sanata per l'umiltà di Cristo".
    Ed è da notare che l'umiltà del Salvatore risponde convenevolmente a la superbia del traditore. Ché la superbia del primo uomo fu contro a Dio, per ciò che fue contro al suo comandamento ch'egli avea dato, che non mangiasse del frutto dei legno de la scienza dei bene e del male; fue anche infino a Dio, però che appetìo la divinitade, credendo quello che '1 diavolo gli avea detto, cioè: "Sarete come dii"; fue anche sopra Dio volendo quello che Iddio non volea che volesse, come dice Anselmo, ché allora soprappuose la sua volontarie a quella di Dio.
    Così per contrario, il Figliolo di Dio, come dice Giovanni Damasceno, s'umiliò per li uomini, [non contra li uomini], infino a li uomini e sopra li uomini. Per li uomini per ciò che per la loro utilitade e salute, infino a gli uomini per lo modo similiante del nascere, sopra gli uomini per lo modo del nascere dissimiliante. Però che il suo nascimento, secondo alcuna cosa fu simigliante a noi, cioè perché nacque di femmina e per una medesima porta di schiatta; e secondo alcuna cosa fue dissimigliante, per ciò che nacque di Spirito Santo e di Maria Vergine.
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    00 24/11/2009 18:37

    AMOR DE CARITATE
    di Jacopone da Todi


    En Cristo è nata nova creatura,
    spogliato l vecchio om, fatto novello;
    ma tanto l'amor monta con ardura,
    lo cor par che se fenda con coltello;
    mente con senno tolle tal calura,
    Cristo me trae tutto, tanto è bello!
    Abbracciome con ello per amor sì claro:
    "Amor, cui anto bramo, famme morir d'amore!

    Per te, amor consumome languendo,
    e vo stridendo per te abbracciare;
    quando te parti, sì moio vivendo,
    sospiro e piango per te retrovare;
    e, retornando, el cor se va stendendo,
    ch’en te se possa tutto trasformare;
    donqua, più non tardare, amor, or me sovvene,
    ligato sì me tene, consumame lo core!

    Resguarda, dolce amor, la pena mia!
    Tanto calore non posso patire:
    l'amor m’ha preso, non so do' me sia,
    che faccio o dico non posso sentire;
    como stordito sì vo per la via,
    spesso trangoscio per forte languire;
    non so co sofferire possa tale tormento,
    e però me sento, che m’ha secco lo core.

    Cor m’e furato: non posso vedere
    che deggia fare, o che spesso faccia;
    e chi me vede, dice vol sapere
    amor senza atto se a te, Cristo piaccia.
    Se non te piace, che posso valere?
    De tal mesura la mente m’allaccia
    l'amor che sì m’abbraccia, tolleme lo parlare,
    volere ed operare, perdo tutto sentore.
    [SM=x1868338]


    LAUDA DEL NATALE di Anonimo del XIV secolo


    Cantiam di quello amor divino,
    di Iesù Cristo piccolino.

    Or quellera amor rosato
    veder Cristo, amor beato,
    picciolino fantin nato,
    aulente fior di gersonzino

    Sì fu alto amore e caro,
    che i tre magi l'aroraro;
    con reverenzia i presentaro
    encenso e mirra e auro fino.

    Grande umiltade pensare
    che volse l'angel andare
    alli pastori annunziare
    che è nato Cristo mammulino.

    La mangiatoia fu il suo letto,
    l'asin e i bue ebbe ‘n sul petto,
    ben ebbe ‘l mondo in dispetto
    fin ched e' fu picciolino.
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    00 24/11/2009 18:39


    NEL PRESEPIO IL PONESTI
    di Giovanni Dominici


    Di' Maria dolce, con quanto disìo
    miravi il tuo figliuol Cristo, mio Dio.

    Quando tu il partoristi senza pena
    la prima cosa, credo, che facesti
    tu l'adorasti, o di grazia piena,
    poi sopra il fien nel presepio il ponesti
    con pochi e pover' panni lo involgesti,
    maravigliando e godendo, cred'io.

    O quanto gaudio avevi, o quanto bene
    quando tu lo tenevi nelle braccia:
    dimmi, Maria, che forse si conviene,
    che un poco per pietà Mi sadisfaccia,
    baciavilo tu allora nella faccia
    sì ben, cred'io, e dicei, o figliuol mio.

    Quando figliuol, quando padre e signore,
    quando Iddio, quando Gesù il chiamavi:
    o quanto dolce amor sentivi al core
    quando in gremio il tenevi e lattavi,
    o quanti atti d'amore soavi
    avesti essendo col tuo figliuol pio!

    Io mi credo che tu penavi, quanto!
    Quando Gesù la mattina vestivi,
    perchè a toccarlo avevi piacer tanto,
    che da me malvolentieri lo spartivi:
    non so come di te tu non uscivi,
    ne anco el cor da te non si partia.


    Quando talora un poco el sì dormìa,
    e tu destar volendo il Paradiso,
    pian pian andavi, che non ti sentia,
    e poi ponevi il viso al santo viso:
    poi gli dicevi con materno riso:
    non domir più, che ti sarebbe rio.


    [SM=x2039725]


    LAUDA DELLA VERGINE

    di Anonimo del XV secolo


    Per lo vostro grande valore, Vergine Maria
    ci hai dato un bambino ch'è la vita mia.

    Un dolce bambino voi ci avete fatto,
    grand'è picciolino da tenerlo in braccio;
    baciando e abbracciando n'averem sollazzo;
    non voglio altra gioia, nessuna che sia.

    Vergin Maria, chinal nel presepio
    quel dolce bambino goderem con esso;
    chi nol sa pigliare stringase al petto,
    che non possa cessare la dolcezza sua.

    Del vostro bambino affannati siamo
    e colli nostri cuori lo desideriamo;
    accattaci grazia che noi lo contempliamo
    e tegnamoci sempre in della sua balia

    Quel doce bambino gambetta in del fieno,
    colle braccia scoperto, non lassa per gelo;
    la madre lo ricopre con gran desiderio
    mettendogli la puppa nella sua bocchina.

    Puppava lo bambino la dolciata puppa,
    stringeale colla bocca, colle sue labbruccia;
    ciuppa, ciuppa, ciuppa, non vuol ministruccia,
    perchè non avea dentucci la bella bocchina.

    O vera umanitade, come se' aggrandita,
    colla divinitade tua se' unita;
    la Vergine Maria ne prende letizia
    e a noi peccatori ne fa cortesia.

    [SM=x2039725]

    QUI NON È LOCO UMIL
    di Vittoria Colonna


    Qui non è a loco umil, né le pietose
    braccia de la gran Madre, né i pastori,
    né del pietoso vecchio i dolci amori,
    né l'angeliche voci alte e gioiose,
    né dei re sap;ienti le pompose
    offerte, fatte con soavi ardori,
    ma ci sei Tu, che Te medesmo onori,
    Signor, cagion di tutte l'altre cose.
    So che quel vero che nascesti Dio
    sei qui, né invidio altrui, ma ben pietade
    ho sol di me, non ch'io giungessi tardo;
    non è il tempo infelice, ma son io
    misera, che per fede ancor non ardo
    come essi per vederTi in quella etade.

    [SM=x2039724]


    IL NATALE


    di Alessandro Manzoni


    Qual masso che dal vertice
    di lunga erta montana,
    abbandonato all'impeto
    di rumorosa frana,
    per lo scheggiato calle
    precipitando a valle,
    barre sul fondo e sta;

    là dove cadde, immobile
    giace in sua lenta mole;
    né, per mutar di secoli,
    fia che riveda il sole
    della sua cima antica,
    se una virtude amica
    in alto nol trarrà:

    tal si giaceva il misero
    figliol del fallo primo,
    dal dì che un'ineffabile
    ira promessa all'imo
    d'ogni malor gravollo,
    donde il superbo collo
    più non potea levar.

    Qual mai tra i nati all'odio,
    quale era mai persona
    che al Santo inaccessibile
    potesse dir: perdona?
    far novo patto eterno?
    al vincitore inferno
    la preda sua strappar?

    Ecco ci è nato un Pargolo,
    ci fu largito un Figlio:
    le avverse forze tremano
    al mover del suo ciglio:
    all' uom la mano Ei porge,
    che sì ravviva, e sorge
    oltre l'antico onor.

    Dalle magioni eteree
    sgorga una fonte, e scende,
    e nel borron de' triboli
    vivida si distende:
    stillano mele i tronchi
    dove copriano i bronchi,
    ivi germoglia il fior.

    O Figlio, o Tu cui genera
    l'Eterno, eterno seco;
    qual ti può dir de' secoli:
    Tu cominciasti meco?
    Tu sei: del vasto empiro
    non ti comprende il giro:
    la tua parola il fe'.

    E Tu degnasti assumere
    questa creata argilla?
    qual merto suo, qual grazia
    a tanto onor sortilla
    se in suo consiglio ascoso
    vince il perdon, pietoso
    immensamente Egli è.

    Oggi Egli è nato: ad Efrata,
    vaticinato ostello,
    ascese un'alma Vergine,
    la gloria d'lsraello,
    grave di tal portato
    da cui promise è nato,
    donde era atteso usci.

    La mira Madre in poveri
    panni il Figliol compose,
    e nell'umil presepio
    soavemente il pose;
    e l'adorò: beata!
    innazi al Dio prostrata,
    che il puro sen le aprì.

    L’Angel del cielo, agli uomini
    nunzio di tanta sorte,
    non de' potenti volgesi
    alle vegliate porte;
    ma tra i pastor devoti,
    al duro mondo ignoti,
    subito in luce appar.

    E intorno a lui per l'ampia
    notte calati a stuolo,
    mille celesti strinsero
    il fiammeggiante volo;
    e accesi in dolce zelo,
    come si canta in cielo
    A Dio gloria cantar.

    L’allegro inno seguirono,
    tornando al firmamento:
    tra le varcare nuvole
    allontanossi, e lento
    il suon sacrato ascese,
    fin che più nulla intese
    la compagnia fedel.

    Senza indugiar, cercarono
    l'albergo poveretto
    que' fortunati, e videro,
    siccome a lor fu detto
    videro in panni avvolto,
    in un presepe accolto,
    vagire il Re del Ciel.

    Dormi, o Fanciul; non piangere;
    dormi, o Fanciul celeste:
    sovra il tuo capo stridere
    non osin le tempeste,
    use sull'empia terra,
    come cavalli in guerra,
    correr davanti a Te.

    Dormi, o Celeste: i popoli
    chi nato sia non sanno;
    ma il dì verrà che nobile
    retaggio tuo saranno;
    che in quell'umil riposo,
    che nella polve ascoso,
    conosceranno il Re.

    [SM=x2039724]


    ABBACCHIO, OLIVA E PESCE


    di Giuseppe Gioacchino Belli


    Ustacchio, la víggija de Natale
    Te mmettete de guardia sur portone
    De quarche mmonziggnore o ccardinale,
    E vvedrai entrà sta príscissione.

    Mo entra una cassetta de torrone,
    Mo entra un barflozzo de caviale,
    Mo er porco, mo er pofiastro, mo er cappone,
    E mmo er fiasco de vino padronale.

    Poi entra er gallinaccio, poi l'abbacchio,
    L'oliva dolce, er pesce de Fojjano,
    L'ojjio, er tonno, l'anguiha de Comacchio.

    Inzomma, inzino a nnotte, a mmano ammano,
    Te fli tt'accorgerai, padron Ustacchio,
    Cuant'è ddivoto er popolo romano.



    [SM=x2039725]

    I BUOI

    di Thomas Hardy


    Vigilia di Natale, e mezzanotte:
    «Ora essi sono tutti inginocchiati»,
    Disse un anziano a noi seduti in gruppo
    Ben crogiolati presso il focolare.

    Ci fingemmo le miti creature
    Entro A loro ricovero di paglia,
    Né ad alcuno di noi venne il pensiero
    Che non fossero appunto genuflessi.

    Tanto leggiadra fantasia, chi mai
    Tesserebbe in questi anni? Pure io sento
    Che se in quell'ora un tale mi dicesse:
    «Vieni a vedere i buoi inginocchiati

    Nella solinga fattoria a valle,
    Che nell'infanzia avemmo famliare»,
    Lo seguirei tra l'ombre della notte,
    Sperando in cuore fosse proprio vero.
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    I TRE SANTI MAGI DALL'ORIENTE

    di Heinrich Heine


    I tre santi Re Magi dall'Oriente
    chiedono in ogni piccola città:
    «Cari ragazzi e giovinette,
    dite, la strada per Betlemme è per di qua?»

    Né i giovani né i vecchi non lo sanno
    e i tre Re Magi sempre avanti vanno;
    ma una cometa d'oro li conduce
    che lassù chiara e amabile riluce.

    La stella sulla casa di Giuseppe
    ecco s'arresta: là devono entrare.
    Il bovetto muggisce, il bimbo strilla,
    e i tre Re Magi prendono a cantare.



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    da "UN CANTO DI NATALE"
    di Charles Dickens




    … Corse alla finestra, l'aprì e sporse fuori la testa; niente nebbia, niente bruma; una giornata chiara, luminosa, gioviale, stimolante, fredda; un freddo che frustava il sangue e metteva voglia di ballare; un sole d'oro, un cielo incantevole; aria fresca e dolce; campane gioiose. Oh, splendido, splendido!
    "Che giorno è oggi?", gridò Scrooge, verso la strada, a un ragazzo vestito a festa, che forse si era fermato proprio per guardare lui.
    "Eh...?", rispose il ragazzo, con tutto lo stupore di cui era capace.
    "Che giorno è oggi, mio bel figliolo?", chiese Scrooge.
    "oggi...", replicò il ragazzo, "ma come? È Natale!"
    "È Natale", disse Scrooge a se stesso. "Non l'ho lasciato passare. Gli spiriti hanno fatto tutto in una notte sola. Possono fare qualunque cosa vogliono, naturalmente; naturalmente, possono fare qualunque cosa vogliono!" "Senti, ragazzino."
    "Sì", rispose il ragazzo.
    "Sei un ragazzino intelligente", disse Scrooge, "un ragazzino straordinario. Sai se hanno venduto quel tacchino che c'era appeso in mostra alla bottega? Non il tacchino piccolo, ma quello grosso."
    "Quale, quello grosso come me?", rispose il ragazzino.
    " - Che ragazzino delizioso! E un piacere parlare con lui. - Sì, figliolo mio."
    "C'è ancora appeso adesso", replicò il ragazzo.
    "C'è", disse Scrooge. "Va' a comperarlo."
    "È matto!", rispose il ragazzo.
    "No, no", disse Scrooge. "Va' a comperarlo, e di che lo portino qui, perché possa dare l'indirizzo dove deve essere mandato. Ritorna col commesso e ti darò uno scellino; ritorna con lui in meno di cinque minuti e ti darò mezza corona."
    Il ragazzo partì come una palla di fucile; e chi avesse potuto far partire una palla con una velocità pari a metà della sua avrebbe dovuto avere la mano ben ferma sul grilletto.
    "Lo voglio mandare a Bob Cratchit", mormorò Scrooge, fregandosi le mani e scoppiando in una risata. "Non saprà chi è che glielo ha mandato. E grande il doppio di Tiny Tim. Nessuno ha mai fatto uno scherzo così ben riuscito come quello di mandare quel tacchino a Bob."
    La calligrafia con la quale scrisse l'indirizzo non era molto ferma; tuttavia, in un modo o nell'altro, lo scrisse, poi scese giù ad aprire la porta di strada per trovarsi pronto all'arrivo del commesso del pollaiolo. Mentre stava sulla porta, aspettandolo, gli cadde sott'occhio il batacchio.
    "A questo vorrò bene finché vivo", gridò Scrooge, accarezzandolo con le mani. "E dire che prima lo avevo appena guardato! Che espressione onesta c'è in quella faccia! E un batacchio magnifico. Ma ecco il tacchino. Hello, come state? Buon Natale!"
    Quello era un tacchino! E impossibile che quell'uccello fosse mai stato in piedi. Le zampe gli si sarebbero piegate sotto in un minuto, come bastoncini di ceralacca.
    "Ma è impossibile portarlo fino a Camden Town. Bisogna che prendiate una carrozza."
    Il risolino col quale pronunciò queste parole, e quello col quale pagò il tacchino, e quello col quale pagò la carrozza, e quello col quale ricompensò il ragazzo, furono superati soltanto da quello col quale tornò a sedersi senza fiato sulla sua sedia, continuando a ridere finché non gli venne da piangere.
    Farsi la barba non fu cosa facile perché la mano continuava a tremargli molto; e farsi la barba è una cosa che richiede attenzione anche quando uno, facendosela, non si mette a ballare; pure, se si fosse tagliato la punta del naso, ci avrebbe messo sopra un pezzetto di cerotto e sarebbe stato perfettamente soddisfatto lo stesso.
    Si vestì dei suoi abiti migliori, e finalmente uscì in strada. In questo momento la gente stava uscendo dalle case, così come egli l'aveva vista in compagnia dello Spettro del Natale Presente. E Scrooge, camminando con le mani dietro la schiena, guardava tutti quanti con un sorriso compiaciuto. Per dirla in breve, aveva l’aria così irresistibilmente piacevole che tre o quattro tipi di buon umore dissero "buon giorno, signore, buon Natale", e Scrooge disse spesso, più tardi, che di tutti i suoni gioiosi che egli aveva mai udito, quelli al suo orecchio erano stati i più gioiosi.
    Non aveva fatto molta strada, quando vide venirgli incontro quel signore imponente che il giorno prima era entrato nel suo ufficio dicendo: "La ditta Scrooge e Marley, credo". Sentì un colpo al cuore nel pensare all'occhiata che gli avrebbe dato il vecchio signore nel momento in cui si fossero incontrati; ma conosceva ormai quale strada gli si apriva diritta dinanzi e la prese.
    "Caro signore", disse Scrooge, affrettando il passo, e prendendo il vecchio per ambe le mani, "come state? Spero che abbiate avuto successo ieri. E stato molto gentile da parte vostra. Buon Natale, signore!"
    "Il signor Scrooge?"
    "Sì", disse Scrooge: "questo è il mio nome, e ho paura che non vi riesca molto gradito. Permettetemi di chiedervi scusa, e vogliate avere la bontà... " e qui Scrooge gli sussurrò qualcosa all'orecchio.
    "Signore Iddio!", gridò il signore, come se gli fosse stato mozzato il fiato. "Mio caro signor Scrooge, parlate sul serio?"
    "Per favore", disse Scrooge, "neanche un soldo di meno. In questa somma, vi assicuro, sono compresi molti arretrati. Volete farmi questo favore?"
    "Ma, caro signore", disse l'altro, stringendogli la mano, "non so che cosa dire di fronte a una simile munifi..."
    "Non dite niente, vi prego", replicò Scrooge. "Venite a trovarmi. Verrete a trovarmi?"
    "Ma certo", esclamò il vecchio signore, ed era chiaro che diceva sul serio.
    "Grazie", disse Scrooge, "vi sono molto obbligato. Vi ringrazio mille volte. Dio vi benedica."
    Si recò in chiesa, passeggiò per le strade, guardò la gente che si affrettava in tutte le direzioni, accarezzò bambini sulla testa, rivolse la parola ai mendicanti, guardò dentro le cucine delle case e dentro le finestre, e trovò che tutto quanto gli procurava piacere. Non aveva mai sognato che una passeggiata, che una cosa qualunque potesse dargli tanta felicità. Nel pomeriggio si diresse verso la casa di suo nipote.
    Passò e ripassò davanti alla porta una dozzina di volte, prima di avere il coraggio di andar su e bussare. Finalmente si decise e lo fece.
    "E in casa il vostro padrone, mia cara?", disse Scrooge alla domestica. Ragazza graziosa, davvero!
    "Sì, signore."
    "Dov'è, amor mio?", disse Scrooge.
    "E in sala da pranzo, insieme con la signora. Vi accompagno di sopra, col vostro permesso."
    "Grazie, lui mi conosce", disse Scrooge, che aveva già la mano sulla maniglia della sala da pranzo. "Entrerò qui, mia cara."
    Fece girare la maniglia pian piano, e si affacciò alla porta semiaperta. Stavano guardando la tavola apparecchiata con un gran lusso, perché i padroni di casa, quando sono giovani, sono sempre nervosi su questo punto e vogliono esser sicuri che tutto sia in perfetto ordine.
    "Fred!", disse Scrooge.
    Signore! come trasalì la sua nipote acquisita! Per un attimo Scrooge si era scordato che c'era anche lei, seduta in un angolo, col panchettino sotto i piedi; altrimenti non lo avrebbe fatto di certo.
    "Ma come, benedetto Iddio", gridò Fred, "chi è mai?"
    "Sono io, tuo zio Scrooge. Son venuto a pranzo. Vuoi lasciarmi entrare, Fred?"
    Lasciarlo entrare! E un miracolo che, stringendogli la mano, non gli staccasse addirittura il braccio. Si sentì a casa propria in cinque minuti. Non c'era nulla che potesse essere più cordiale. Sua nipote aveva esattamente lo stesso aspetto, e così Topper quando arrivò, e così la sorellina paffutella quando arrivò e così tutti quanti quando arrivarono. Festa meravigliosa, giochi meravigliosi, armonia meravigliosa, felicità meravigliosa.
    Però la mattina seguente arrivò presto in ufficio. Oh, se ci arrivò presto! Solo poter arrivare per primo e sorprendere Bob Cratchit che arrivava in ritardo: era questa la cosa che più gli stava a cuore.
    E vi riuscì; sì, vi riuscì. L'orologio batté le nove - niente Bob; le nove e un quarto - niente Bob. Era ben diciotto minuti e mezzo in ritardo. Scrooge stava seduto con la porta spalancata, in modo da poterlo veder entrare nella cisterna.
    Si era levato il cappello e la sciarpa prima di aprire la porta, e si arrampicò in un baleno sul suo panchetto, correndo via con la penna come se tentasse di riacchiappare le nove.
    "Ehi là!", grugnì Scrooge, con la sua voce consueta, imitandola il più fedelmente possibile. "Che cosa significa arrivare a quest'ora?"
    "Vi chiedo mille scuse, signor Scrooge", disse Bob, "sono in ritardo."
    "Davvero?", ripeté Scrooge. "Sì, credo che siate in ritardo. Venite un momento qua, per favore!"
    "Una volta sola all'anno, signor Scrooge", supplicò Bob, venendo fuori dalla cisterna. "Non succederà più. Ieri siamo stati un po' allegri."
    "Ora vi dirò una cosa, amico mio", disse Scrooge. "Non intendo tollerare più a lungo questa razza di cose, e perciò", proseguì, balzando su dalla sedia e dando a Bob una tale spinta nel panciotto da farlo andare all'indietro barcollando dentro la cisterna, "e perciò mi propongo di aumentarvi lo stipendio."
    Bob tremò e si avvicinò un po' più al righello. Ebbe per un momento l'idea dì servirsene per stordire Scrooge, e poi tenerlo fermo e chiedere alla gente della corte aiuto e una camicia di forza.
    "Buon Natale, Bob!", disse Scrooge, con una serietà che non poteva essere fraintesa, battendogli sulle spalle. "Un Natale più buono, Bob, mio bravo figliolo, di quelli che vi ho dato per molti anni. Vi aumenterò lo stipendio e tenterò di assistere la vostra famiglia nelle sue difficoltà; e questo stesso pomeriggio discuteremo i vostri affari, seduti davanti a un bel punch natalizio fumante. Ravvivate il fuoco, Bob Cratchit, e comperatevi un'altra paletta per il carbone, prima di mettere il punto su un'altra i."
    Scrooge fece più che mantenere la parola. Fece tutto quanto, e infinitamente di più: e per Tiny Tim, il quale non morì, fu un secondo padre. Divenne un amico, un padrone, un uomo così buono, come poteva mai averne conosciuto quella buona vecchia città, o qualunque altra buona vecchia città, borgata o villaggio di questo buon mondo. Alcuni ridevano, vedendo il suo cambiamento; ma egli era abbastanza saggio da sapere che su questo globo niente di buono è mai accaduto, di cui qualcuno non abbia riso al primo momento. E sapendo che in ogni modo la gente siffatta è cieca, pensò che non aveva nessuna importanza se strizzavano gli occhi in un sogghigno, come fanno gli ammalati di certe forme poco attraenti di malattie. Il suo cuore rideva e questo per lui era perfettamente sufficiente.
    Non ebbe più rapporti con gli spiriti; ma visse sempre, d'allora in poi, sulla base di una totale astinenza; e di lui si disse sempre che se c'era un uomo che sapeva osservare bene il Natale, quell'uomo era lui. Possa questo esser detto veramente di noi, di noi tutti! E cosi, come osservò Tiny Tim, che Dio ci benedica, tutti!
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    Merlino
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    00 24/11/2009 18:43


    LA FESTA DI NATALE
    di Carlo Collodi




    La storia che vi racconto oggi, non è una di quelle novelle, come se ne raccontano tante, ma è una storia vera, vera, vera.

    Dovete dunque sapere che la Contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con tre figli: due maschi e una bambina.

    Il maggiore, di nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove anni: Alberto, il secondo, ne finiva sette, e l'Ada, la minore di tutti, era entrata appena ne' sei anni, sebbene a occhio ne dimostrasse di più, a causa della sua personcina alta, sottile e veramente aggraziata.

    La contessa passava molti mesi all'anno in una sua villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per amore de' suoi figlioletti, che erano gracilissimi e di una salute molto delicata.

    Finita l'ora della lezione, il più gran divertimento di Luigino era quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe stato capace di fare cento chilometri in un giorno se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di legno!

    Ma Luigino gli voleva lo stesso bene, come se fosse stato un cavallo vero. Basta dire, che non passava sera che non lo strigliasse con una bella spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una manciata di lupini salati. E se per caso il cavallo si ostinava a non voler mangiare, allora Luigino gli diceva accarezzandolo:

    «Vedo bene che questa sera non hai fame. Pazienza: i lupini li mangerò io. Addio a domani, e dormi bene».

    E perché il cavallo dormisse davvero, lo metteva a giacere sopra una materassina ripiena d'ovatta: e se la stagione era molto rigida e fredda, non si dimenticava mai di coprirlo con un piccolo pastrano, tutto foderato di lana e fatto cucire apposta dal tappezziere di casa.

    Alberto, il fratello minore, aveva un'altra passione. La sua passione era tutta per un bellissimo Pulcinella, che, tirando certi fili, moveva con molta sveltezza gli occhi, la bocca, le braccia e le gambe, tale e quale come potrebbe fare un uomo vero: e per essere un uomo vero, non gli mancava che una sola cosa: il parlare.

    Figuratevi la bizza di Alberto! Quel buon figliuolo non sapeva rendersi una ragione del perché il suo Pulcinella, ubbidientissimo a fare ogni sorta di movimenti, avesse preso la cocciutaggine di non voler discorrere a modo e verso, come discorrono tutte le persone per bene, che hanno la bocca e la lingua.

    E fra lui e Pulcinella accadevano spesso dei dialoghi e dei battibecchi un tantino risentiti, sul genere di questi:

    «Buon giorno, Pulcinella», gli diceva Alberto, andando ogni mattina a tirarlo fuori dal piccolo armadio dove stava riposto. «Buon giorno, Pulcinella.»

    E Pulcinella non rispondeva.

    «Buon giorno, Pulcinella», ripeteva Alberto.

    E Pulcinella, zitto! come se non dicessero a lui.

    «Su, via, finiscila di fare il sordo e rispondi: buon giorno, Pulcinella.»

    E Pulcinella, duro!

    «Se non vuoi parlare con me, guardami almeno in viso» diceva Alberto un po' stizzito.

    E Pulcinella, ubbidiente, girava subito gli occhi e lo guardava.

    «Ma perché», gridava Alberto arrabbiandosi sempre di più, «ma perché se ti dico "guardami" allora mi guardi; e se ti dico "buon giorno" non mi rispondi?»

    E Pulcinella, zitto!

    «Brutto dispettoso! Alza subito una gamba!»

    E Pulcinella alzava una gamba.

    «Dammi la mano!»

    E Pulcinella gli dava la mano.

    «Ora fammi una bella carezzina!»

    E Pulcinella allungava il braccio e prendeva Alberto per la punta del naso.

    «Ora spalanca tutta la bocca!»

    E Pulcinella spalancava una bocca, che pareva un forno.

    «Di già che hai la bocca aperta, profittane almeno per darmi il buon giorno.»

    Ma il Pulcinella, invece di rispondere, rimaneva lì a bocca aperta, fermo e intontito, come, generalmente parlando, è il vizio di tutti gli omini di legno.

    Alla fine Alberto, con quel piccolo giudizino, che è proprio di molti ragazzi, cominciò a mettersi nella testa che il suo Pulcinella non volesse parlare né rispondergli, perché era indispettito con lui. Indispettito!... e di che cosa? Forse di vedersi mal vestito, con un cappellaccio in capo di lana bianca, una camicina tutta sbrindellata, e un paio di pantaloncini così corti e striminziti, che gli arrivavano appena a mezza gamba.

    «Povero Pulcinella!», disse un giorno Alberto, compiangendolo sinceramente, «se tu mi tieni il broncio, non hai davvero tutti i torti. Io ti mando vestito peggio di un accattone... ma lascia fare a me! Fra poco verranno le feste di Natale. Allora potrò rompere il mio salvadanaio... e con quei quattrini, voglio farti una bella giubba, mezza d'oro e mezza d'argento.»


    Per intendere queste parole di Alberto, occorre avvertire che la Contessa aveva messo l'uso di regalare a' suoi figli due o tre soldi la settimana, a seconda, s'intende bene, de' loro buoni portamenti. Questi soldi andavano in tre diversi salvadanai: il salvadanaio di Luigino, quello di Alberto e quello dell'Ada. Otto giorni avanti la pasqua di Natale, i salvadanai si rompevano, e coi danari che vi si trovavano dentro, tanto la bambina, come i due ragazzi erano padronissimi di comprarsi qualche cosa di loro genio.

    Luigino, com'è naturale, aveva pensato di comprare per il suo cavallo una briglia di pelle lustra con le borchie di ottone, e una bella gualdrappa, da potergliela gettare addosso, quando era sudato.

    L'Ada, che aveva una bambola più grande di lei, non vedeva l'ora di farle un vestitino di seta, rialzato di dietro, secondo la moda, e un paio di scarpine scollate per andare alle feste da ballo.

    In quanto al desiderio di Alberto, è facile immaginarselo. Il suo vivissimo desiderio era quello di rivestire il Pulcinella con tanto lusso, da doverlo scambiare per un signore di quelli buoni.

    Intanto il Natale s'avvicinava, quand'ecco che una mattina, mentre i due fratelli con la loro sorellina, andavano a spasso per i dintorni della villa, si trovarono dinanzi a una casipola tutta rovinata, che pareva piuttosto una capanna da pastori. Seduto sulla porta c'era un povero bambino mezzo nudo, che dal freddo tremava come una foglia.

    «Zio Bernardo, ho fame», disse il bambino con una voce sottile, sottile, voltandosi appena con la testa verso l'interno della stanza terrena.

    Nessuno rispose.

    In quella stanza terrena c'era accovacciato sul pavimento un uomo con una barbaccia rossa, che teneva i gomiti appuntellati sulle ginocchia e la testa fra le mani.

    «Zio Bernardo, ho fame!...», ripeté dopo pochi minuti il bambino, con un filo di voce che si sentiva appena.

    «Insomma vuoi finirla?», gridò l'uomo dalla barbaccia rossa. «Lo sai che in casa non c'è un boccone di pane: e se tu hai fame, piglia questo zoccolo e mangialo!»

    E nel dir così, quell'uomo bestiale si levò di piede uno zoccolo e glielo tirò. Forse non era sua intenzione di fargli del male; ma disgraziatamente lo colpì nel capo.

    Allora Luigino, Alberto e l'Ada, commossi a quella scena, tirarono fuori alcuni pezzetti di pane trovati per caso nelle loro tasche, e andarono a offrirli a quel disgraziato figliolo.

    Ma il bambino, prima si toccò con la mano la ferita del capo: poi guardandosi la manina tutta insanguinata, balbettò a mezza voce:

    «Grazie... ora non ho più fame...».

    Quando i ragazzi furono tornati alla villa, raccontarono il caso compassionevole alla loro mamma; e di quel caso se ne parlò due o tre giorni di seguito. Poi, come accade di tutte le cose di questo mondo, si finì per dimenticarlo e per non parlarne più.

    Alberto, per altro, non se l'era dimenticato: e tutte le sere andando a letto, e ripensando a quel povero bambino mezzo nudo e tremante dal freddo, diceva grogiolandosi fra il calduccio delle lenzuola:

    «Oh come dev'essere cattivo il freddo! Brrr...».

    E dopo aver detto e ripetuto per due o tre volte «Oh come dev'esser cattivo il freddo!» si addormentava saporitamente e faceva tutto un sonno fino alla mattina.

    Pochi giorni dopo accadde che Alberto incontrò per le scale di cucina la Rosa: la quale era l'ortolana che veniva a vendere le uova fresche alla villa.

    «Sor Albertino, buon giorno signoria», disse la Rosa: «quanto tempo è che non è passato dalla casa dell'Orco?»

    «Chi è l'Orco?»

    «Noi si chiama con questo soprannome quell'uomo dalla barbaccia rossa, che sta laggiù sulla via maestra.»

    «O il suo bambino che fa?»

    «Povera creatura, che vuol che faccia?... È rimasto senza babbo e senza mamma, alle mani di quello zio Bernardo...»

    «Che dev'essere un uomo cattivo e di cuore duro come la pietra, non è vero?», soggiunse Alberto.

    «Pur troppo! Meno male che domani parte per l'America... e forse non ritornerà più.»

    «E il nipotino lo porta con sé?»

    «Nossignore: quel povero figliuolo l'ho preso con me, e lo terrò come se fosse mio».

    «Brava Rosa.»

    «A dir la verità, gli volevo fare un po' di vestituccio, tanto da coprirlo dal freddo... ma ora sono corta a quattrini. Se Dio mi dà vita, lo rivestirò alla meglio a primavera.»

    Alberto stette un po' soprappensiero, poi disse:

    «Senti, Rosa, domani verso mezzogiorno ritorna qui, alla villa: ho bisogno di vederti.»

    «Non dubiti.»


    Il giorno seguente, era il giorno tanto atteso, tanto desiderato, tanto rammentato: il giorno, cioè, in cui celebravasi solennemente la rottura de' tre salvadanai.

    Luigino trovò nel suo salvadanaio dieci lire: l'Ada trovò nel suo undici lire, e Alberto vi trovò nove lire e mezzo.

    «Il tuo salvadanaio», gli disse la mamma, «è stato più povero degli altri due: e sai perché? perché in quest'anno tu hai avuto poca voglia di studiare.»

    «La voglia di studiare l'ho avuta», replicò Alberto, «ma bastava che mi mettessi a studiare, perché la voglia mi passasse subito.»

    «Speriamo che quest'altr'anno non ti accada lo stesso» soggiunse la mamma: poi volgendosi a tutti e tre i figli, seguitò a dire: «Da oggi alla pasqua di Natale, come sapete, vi sono otto giorni precisi. In questi otto giorni, secondo i patti stabiliti, ognuno di voi è padronissimo di fare quell'uso che vorrà, dei danari trovati nel proprio salvadanaio. Quello poi, di voialtri, che saprà farne l'uso migliore, avrà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio.»

    "Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi finimenti e alla bella gualdrappa che aveva ordinato per il suo cavallo.

    "Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé l'Ada, pensando alle belle scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio per la sua bambola.

    "Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito che voleva fare al suo Pulcinella.

    Ma nel tempo che egli pensava al Pulcinella, sentì la voce della Rosa che, chiamandolo a voce alta dal prato della villa, gridava:

    «Sor Alberto! sor Alberto!».

    Alberto scese subito. Che cosa dicesse alla Rosa non lo so: ma so che quella buona donna, nell'andarsene, ripeté più volte:

    «Sor Albertino, lo creda a me: lei ha fatto proprio una carità fiorita, e Dio manderà del bene anche a lei e a tutta la sua famiglia!».


    Otto giorni passarono presto: e dopo otto giorni arrivò la festa di Natale o il Ceppo, come lo chiamano i fiorentini.

    Finita appena la colazione, ecco che la Contessa disse sorridendo ai suoi tre figli:

    «Oggi è Natale. Vediamo, dunque, come avete speso i quattrini dei vostri salvadanai. Ricordatevi intanto che, quello di voialtri che li avrà spesi meglio, riceverà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio. Su, Luigino! tu sei il maggiore e tocca a te a essere il primo».

    Luigino uscì dalla sala e ritornò quasi subito, conducendo a mano il suo cavallo di legno, ornato di finimenti così ricchi, e d'una gualdrappa così sfavillante, da fare invidia ai cavalli degli antichi imperatori romani.

    «Non c'è che dire», osservò la mamma, sempre sorridente «quella gualdrappa e quei finimenti sono bellissimi, ma per me hanno un gran difetto... il difetto, cioè, di essere troppo belli per un povero cavallino di legno. Avanti, Alberto! Ora tocca a te.»

    «No, no», gridò il ragazzetto, turbandosi leggermente, «prima di me, tocca all'Ada.»

    E l'Ada, senza farsi pregare, uscì dalla sala, e dopo poco rientrò tenendo a braccetto una bambola alta quanto lei, e vestita elegantemente, secondo l'ultimo figurino.

    «Guarda, mamma, che belle scarpine da ballo!», disse l'Ada compiacendosi di mettere in mostra la graziosa calzatura della sua bambola.

    «Quelle scarpine sono un amore!», replicò la mamma. «Peccato però che debbano calzare i piedi d'una bambina fatta di cenci e di stucco, e che non saprà mai ballare!»


    «E ora, Alberto, vediamo un po' come tu hai speso le nove lire e mezzo, che hai trovate nel tuo salvadanaio.»

    «Ecco... io volevo... ossia, avevo pensato di fare... ossia, credevo... ma poi ho creduto meglio... e così oramai l'affare è fatto e non se ne parli più.»

    «Ma che cosa hai fatto?»

    «Non ho fatto nulla.»

    «Sicché avrai sempre in tasca i danari?»

    «Ce li dovrei avere...»

    «Li hai forse perduti?»

    «No.»

    «E, allora, come li hai tu spesi?»

    «Non me ne ricordo più.»

    In questo mentre si sentì bussare leggermente alla porta della sala, e una voce di fuori disse:

    «È permesso?.»

    «Avanti.»

    Apertasi la porta, si presentò sulla soglia, indovinate chi! Si presentò la Rosa ortolana, che teneva per la mano un bimbetto tutto rivestito di panno ordinario, ma nuovo, con un berrettino di panno, nuovo anche quello, e in piedi un paio di stivaletti di pelle bianca da campagnolo.

    «È tuo, Rosa, codesto bambino?», domandò la Contessa.

    «Ora è lo stesso che sia mio, perché l'ho preso con me e gli voglio bene, come a un figliolo. Povera creatura! Finora ha patito la fame e il freddo. Ora il freddo non lo patisce più, perché ha trovato un angiolo di benefattore, che lo ha rivestito a sue spese da capo a piedi.»

    «E chi è quest'angelo di benefattore?», chiese la Contessa.

    L'ortolana si voltò verso Alberto, e guardandolo in viso e accennandolo alla sua mamma, disse tutta contenta:

    «Eccolo là.»

    Albertino diventò rosso come una ciliegia: poi rivolgendosi impermalito alla Rosa, cominciò a gridare:

    «Chiacchierona! Eppure ti avevo detto di non raccontar nulla a nessuno!...».

    «La scusi: che c'è forse da vergognarsi per aver fatto una bell'opera di carità come la sua?»

    «Chiacchierona! chiacchierona! chiacchierona!», ripeté Alberto, arrabbiandosi sempre più; e tutto stizzito fuggì via dalla sala.

    La sua mamma, che aveva capito ogni cosa, lo chiamò più volte: ma siccome Alberto non rispondeva, allora si alzò dalla poltrona e andò a cercarlo da per tutto. Trovatolo finalmente nascosto in guardaroba, lo abbracciò amorosamente, e invece di dargli a titolo di premio un bacio, gliene dette per lo meno più di cento.

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    IL NATALE DI MARTIN

    di Leone Tolstoj




    In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
    Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
    - Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
    Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
    Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
    E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi».
    Martin rifletté. - Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? - Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
    All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole: - Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
    L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
    Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno. - Entra· disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
    - Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
    - Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
    Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
    - Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
    - Ieri sera- rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
    Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.
    Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa. - Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
    Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
    Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
    La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
    - Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.
    Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po', vide una donna che vendeva mete da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
    Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
    La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
    Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
    - Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
    - Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
    - Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
    Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
    La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
    Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
    Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio: - Martin, non mi riconosci?
    - Chi sei? - chiese Martin.
    - Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
    - Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
    - Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
    Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.
    Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.
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    Merlino
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    da "PICCOLE DONNE"

    di Louisa May Alcott


    CAPITOLO II


    UN LIETO NATALE




    Nella grigia luce del mattino di Natale, la prima a svegliarsi fu Jo; rimase delusa nel vedere che non vi erano calze appese al camino ma, ricordandosi della promessa della mamma, cercò sotto il cuscino e ne trasse un libretto rilegato in rosso. Era la bellissima storia della vita del miglior Uomo che fosse vissuto; Jo la conosceva bene e sapeva che non poteva esistere un miglior libro-guida per un pellegrino in cammino.
    Con un allegro "Buon Natale" destò Meg e le ricordò di cercare sotto il cuscino. Anch'essa trovò un libro con la copertina verde e con alcune parole di dedica scritte dalla mamma. Questo, rendeva il dono ancor più prezioso. Poco dopo Beth ed Amy si svegliarono e, frugando sotto i guanciali, trovarono la prima un libro color cenere, la seconda uno color turchino. Le ragazze cominciarono a sfogliare i libri commentandoli, mentre il cielo si tingeva di rosa per il sorgere del sole.
    Margherita, malgrado le sue piccole vanità, era molto buona e saggia ed aveva una certa influenza sulle sorelline, specialmente su Jo che le voleva molto bene.
    - Ragazze - disse Meg, abbracciando con un solo sguardo le quattro testine arruffate - la mamma desidera che noi leggiamo ed amiamo i libri: dobbiamo ubbidire fin da ora.
    Così detto cominciò a leggere. Io le passò un braccio attorno alle spalle e iniziò la lettura con la guancia appoggiata a quella della sorella.
    - Meg è proprio buona - esclamò Beth commossa. - Vieni, Amy, seguiamo il loro esempio; ti spiegherò le parole che non conosci ed io, se non capirò qualcosa, mi rivolgerò a loro.
    - Ho piacere che la copertina del mio libro sia turchina! - disse Amy.
    Tutta la casa piombò nel silenzio, interrotto soltanto dal frusciare delle pagine. Intanto il sole inondava la camera, augurando il "Buon Natale" alle quattro testine bionde.
    - Dov'è la mamma, Anna? - domandò Meg, dopo una mezz'ora, mentre scendeva le scale insieme a Jo.
    - Dio solo lo sa! È venuto un povero a chiedere l'elemosina e dopo essersi informata su ciò che gli abbisognava, è uscita con lui. Non conosco nessuna donna più generosa nel donare cibi ed abiti ai poveri.
    - Immagino che tornerà presto: prepara intanto le torte: poi prepariamo il resto, - disse Meg, guardando i regali dentro al paniere.
    - Ma dov'è l'acqua di Colonia di Amy?
    - L'ha presa lei pochi momenti fa per metterci un nastro o non so quale altra cosa - rispose Jo, saltellando per la casa.
    - Sono belli i miei fazzoletti? Anna me li ha lavati e stirati ed io li ho cifrati, - disse Beth guardando le cifre piuttosto irregolari.
    - Ma guarda, invece di ricamare "M.M." ha fatto "Mamma"! - esclamò Jo, guardandone uno.
    - Ho forse fatto male? Anche Meg ha come cifra una doppia "M" ed io voglio che questi fazzoletti li adoperi soltanto la mamma! - rispose Beth turbata.
    - Hai fatto benissimo, tesoro! La mamma sarà molto contenta, - disse Meg lanciando una severa occhiata a Jo e sorridendo a Beth.
    - Ho sentito dei passi, presto, nascondiarno i regali! - esclamò Jo concitatamente, ma non era la mamma: era Amy che entrava in gran fretta, tutta confusa nel vedere che le sorelle l'aspettavano già.
    - Dove sei stata e cosa nascondi, lì dietro? - chiese Meg molto meravigliata nel constatare che la pigra sorellina era uscita così di buon'ora.
    - Non ridere, Jo. Non volevo dirlo a nessuno, ma mi avete scoperto. Sono andata a cambiare la boccetta di profumo con una più grande: ho speso tutti i miei risparmi. Voglio diventare veramente buona.
    Amy mostrò la bella bottiglia che avrebbe sostituito quella più piccola ed era così bello ed umile il suo gesto che Meg non potè fare a meno di abbracciarla.
    - Stamattina dopo aver letto il libro - mi sono vergognata del mio egoismo. Appena alzata sono uscita per cambiare la boccetta, ma adesso sono contenta perchè il mio regalo è il più bello di tutti - soggiunse Amy.
    La porta di casa si chiuse di nuovo e le ragazze fecero sparire rapidamente il paniere sotto il divano.
    - Buon Natale, mamma! Buon Natale! Grazie dei libri: abbiamo già cominciato a leggerli e saranno la nostra lettura di ogni mattina - gridarono allegramente le quattro ragazze.
    "Buon Natale a voi, figlie mie! Sono contenta che abbiate già iniziato e spero che continuerete. Ma
    prima di sederci, devo dirvi una cosa. Poco lontano da qui, una donna ha appena avuto un bimbo. Ne ha già altri sei, che stanno rannicchiati in un unico letto per non gelare. Infatti, non hanno né legna per il fuoco, né qualcosa da mangiare... Bambine mie, vorreste donare loro la vostra colazione come regalo di Natale?"
    Per un momento nessuna parlò: avevano un grande appetito poichè attendevano già da un'ora. L'indecisione durò per poco.
    - Sono contenta che tu sia arrivata prima che cominciassimo.
    - Vengo io ad aiutarti? - chiese Beth con premura.
    - Io porto la crema e le focaccine, - soggiunse Amy.
    - Sapevo che le mie bambine avrebbero fatto questo piccolo sacrificio - disse sorridendo la signora March. - Verrete tutte con me e quando torneremo faremo colazione con latte, pane, burro.
    In pochi minuti tutte furono pronte per uscire. Per loro fortuna, le strade erano deserte e nessuno si meravigliò di quella processione.
    La stanza che videro era veramente una stamberga! Il fuoco era spento, le finestre sconquassate; le coperte lacere e in un angolo la madre ammalata col piccolo che strillava. Sotto una vecchia coperta erano sei bambini che, quando videro entrare le fanciulle, sorrisero spalancando gli occhi per la meraviglia.
    - Mio Dio! Sono gli angeli che vengono ad aiutarci, - esclamò la povera madre commossa.
    - Strani angeli con cappucci e guanti! - esclamò Jo e tutti risero allegramente.
    Pochi minuti dopo la stanza aveva mutato aspetto. Anna, che aveva portato la legna da casa, accese il fuoco. Poi, con cappelli vecchi e perfino il suo scialle, chiuse le aperture dei vetri rotti. Intanto la signora March preparava per la madre il tè e una minestra, promettendole nuovi aiuti. Le ragazze preparavano la tavola ed imboccavano i sei bambini, ridendo, chiacchierando e cercando di capire il loro strano modo di parlare. I bambini, tra un boccone e l'altro, le chiamavano "angeli" e questo divertiva molto le ragazze che prima di allora non erano mai state chiamate così, specialmente Jo che, fin dalla nascita, era stata considerata un " sanciopancia ".
    Terminata la colazione, tutte tornarono a casa e forse in tutta la città non vi erano quattro fanciulle più liete.
    - Sono contenta di aver fatto un po' di bene ai nostri simpatici vicini! - esclamò Meg mentre disponeva sulla tavola i doni per la mamma che, in quel momento, stava cercando al piano superiore indumenti per i piccoli Hummel.
    Benchè i regali non fossero gran cosa, la tavola così preparata con le rose, i crisantemi e l'edera, faceva un bell'effetto.
    Le opere benefiche e la distribuzione dei doni occupò le ragazze per tutta la mattinata; il pomeriggio, invece, trascorse tra i preparativi per la festa di quella sera. Essendo ancora troppo giovani per andare a teatro e non avendo la possibilità di comperare tutto il necessario per le loro rappresentazioni, le ragazze dovevano aguzzare il loro ingegno. Alcune delle loro trovate erano veramente ingegnose: chitarre di cartone colorato, lumi antichi ricavati dalle scatole di burro, abiti di cotonina ornati con diamanti di stagnola, armature di lamina di zinco. Il mobilio della stanza era abituato ad essere messo sossopra per quelle ingenue baldorie. Alle recite erano ammesse solo le bambine, così Jo poteva divertirsi ad impersonare tutte le parti maschili. Essa andava molto orgogliosa di un paio di stivaloni di cuoio che le erano stati regalati da un'amica e di un vecchio fioretto che compariva in tutte le rappresentazioni. L'esiguo numero di attori richiedeva che i principali recitassero varie parti, mutando in tutta fretta gli abiti.
    La sera di Natale, su una brandina che fungeva da platea, erano sedute una dozzina di spettatrici: grande era l'attesa davanti al sipario di tela azzurra. Dietro al sipario si udivano fruscii, rumori di passi, un parlare sommesso e le risatine soffocate di Amy, che era in preda ad una grande agitazione.
    Finalmente il sipario si alzò e cominciò la " Tragedia musicale ". La scena rappresentava una foresta oscura: qua e là vi erano vasi di piante, un vecchio tappeto verde simulava il prato. Nel fondo vi era una grotta le cui pareti erano fatte con diverse scrivanie; la scena era resa tenebrosa da un fuoco acceso nella caverna su cui bolliva una pentola, sorvegliata da una vecchia strega. L'effetto era grande specialmente quando la strega alzava il coperchio della pentola, lasciando sfuggire sbuffi di denso fumo nero.
    Dopo un attimo di pausa, Ugo, il personaggio malvagio della tragedia, entra sbatacchiando la porta, col cappello calato sugli occhi e gli immancabili stivali. Dopo aver camminato un po' per il palcoscenico, comincia a cantare il suo odio per Roderigo, il suo amore per Zara e il proposito di uccidere il primo e di farsi amare dalla seconda.
    Il sipario si chiuse tra gli applausi degli spettatori che commentarono l'opera masticando frutta candita.
    Colpi di martelli risuonarono per tutto l'intervallo, ma quando il sipario si alzò, nessuno ebbe il coraggio di lamentarsi per il ritardo. Una torre si ergeva fino al soffitto, nel centro vi era una finestrella illuminata, attraverso la quale appariva Zara in un elegante vestito azzurro.
    Zara doveva uscire dalla finestra, e stava per metter piede a terra, quando lo strascico della sua veste, impigliandosi nelle finestrelle, fa crollare la torre e seppellisce gli infelici amanti. Dalla platea sorse un urlo generale che presto si tramutò in una risata clamorosa mentre, dalle macerie, uscivano agitandosi due stivaloni gialli e una testolina tutta riccioli che gridava:
    - L'avevo detto io! l'avevo detto!
    Fortunatamente l'incidente si risolse assai felicemente.
    Il terzo atto si svolge nel salone del castello dove è nascosta Agar, pronta ad uccidere Ugo e a liberare i due prigionieri. Sentendolo giungere, essa si nasconde e lo vede preparare le bevande, poi volgersi a un servo e dire:
    - Porta queste bevande ai due prigionieri e di che verrò tra poco.
    Ma Agar, approfittando di un momento di distrazione del malvagio, sostituisce due coppe innocue a quelle avvelenate. Il servo esce e Ugo, dopo un lungo canto, preso dalla sete beve la coppa contenente il veleno destinato a Roderigo. Dopo vari gesti e contorsioni egli cade morto per terra mentre Agar compie interamente la sua vendetta informandolo di tutto il suo operato con una bellissima romanza.
    Il quarto atto rivela come Roderigo, che si credeva abbandonato da Zara, voglia uccidersi. Ma un dolce canto lo informa della fedeltà della sua amata e una chiave lanciata dentro la sua prigione gli permette di liberarla.
    Il pubblico applaudì freneticamente e l'applauso sarebbe durato a lungo se non fosse accaduto uno strano incidente. La branda su cui erano seduti gli spettatori si chiuse improvvisamente, soffocando il generale entusiasmo.
    Ridevano ancor tutti quando Anna entrò portando gli auguri di Buon Natale da parte della signora March ed invitando tutti ad un piccolo trattenimento. Fu una sorpresa anche per le ragazze; sapevano che la mamma avrebbe offerto qualcosa, ma una cena così bella non l'avevano più veduta dal tempo della lontana ricchezza. C'erano due gelati; uno bianco ed uno rosso; torta, frutta, un vassoio di fondante e, nel centro della tavola, quattro bellissimi mazzi di fiori. Le bambine guardarono meravigliate, poi assalirono la madre di domande:
    - Sono le fate? - domandò Amy.
    - È il Babbo Natale! - disse Beth.
    - È stata la mamma! - esclamò Meg, sorridendo felice.
    - Per una volta tanto la zia March ha avuta una buona idea! - esclamò Jo improvvisamente.
    - Avete sbagliato! - rispose la signora March. - Ha mandato tutto il Sig. Laurence!
    - Il Sig. Laurence? Ma se non ci conosce neppure! - esclamò Meg, stupita.
    - Anna ha raccontato ad una delle sue domestiche la nostra spedizione di questa mattina in casa Hummel. La storia lo ha commosso, molti anni fa egli era amico del mio babbo, ed oggi mi ha scritto un bigliettino chiedendomi il permesso di mandarvi qualche ghiottoneria, in onore del giorno di Natale. Non potevo rifiutare ed ecco qui un banchetto che certamente vi ricompenserà del pane e latte di questa mattina.
    - È certamente opera del suo nipotino: è un ragazzo molto simpatico e mi piacerebbe di conoscerlo. Credo che anche a lui piacerebbe di fare la nostra conoscenza ma è piuttosto timido, e Meg non mi permette di salutarlo quando lo incontriamo, - disse Jo mentre i piatti dei dolci circolavano e l'allegria aumentava sempre.
    - È un ragazzo molto educato e non ho alcuna difficoltà che facciate amicizia con lui; i fiori li ha portati lui, lo avrei invitato volentieri se avessi saputo che cosa stavate combinando lassù. Credo che avrebbe accettato molto volentieri, ma...
    - Per fortuna non l'ha fatto! la recita è stato un vero fiasco, ma ne faremo delle altre e avremo occasione di invitarlo: forse potrà anche aiutarci. Non sarebbe bello? - disse Jo con entusiasmo.
    - Com'è grazioso il mio mazzo di fiori! - esclamò Meg. - È il primo che ricevo!
    - Sì, davvero grazioso, ma io preferisco le rose di Beth. - Così dicendo, la signora March aspirò il profumo delle rose ormai appassite che teneva alla cintura.
    Beth l'abbracciò e sussurrò:
    - Vorrei mandare qualche rosa anche al babbo, non credo che abbia trascorso un Natale così felice come il nostro!
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    00 24/11/2009 18:46



    NATALE

    di Enrico Panzacchi


    Alta è la notte, scendono
    in candida legione
    dal firmamento gli angeli
    recinti di splendor.
    Pace alla gente buona:
    è nato il Redentor.

    Fiocca la neve: déstansi
    in mezzo all'ombra e al gelo
    e alle melòdi angeliche
    rispondono i pastor:
    Sia gloria a Dio del cielo:
    è nato il Redentor!

    Un tintinnio di giubilo
    da mille torri suona:
    s'allargano le tenebre,
    Spuntan dai tronchi i fior.
    Pace alla terra buona:
    è nato il Redentor.

    Nell'umile presepio,
    o Dio, invan ti Celi;
    a offrire i re già vengono
    mirra, profumi ed òr.
    Gloria sia a Dio nei cieli:
    è nato il Redentor.
    [SM=x2039724]



    da "IN RISAIA"
    della "Marchesa Colombi"




    La domenica tornò Pietro, e la sera nella stalla disse che per tutta la novena di Natale non andrebbe piú a fare trasporti, e lavorerebbe nell'orto.
    - Sarebbe ben meglio - disse Nanna, - che tu stessi a casa sempre.
    - Perché? - domandò Pietro.
    - Perché... perché... via il gatto i sorci ballano. - E gli occhi delle due cognate s'incontrarono. Rosetta, che aveva sulla coscienza la storia del paniere, e la speranza con cui l'aveva messo alla finestra, s'affrettò a parare il colpo.
    - Sí; ne abbiamo fatte delle nostre questa settimana - disse al marito. - Nanna ed io abbiamo messo fuori il paniere per Santa Lucia.
    - E Santa Lucia ha rubato la pezzuola di Rosetta - aggiunse Nanna.
    - Ma l'ho riavuta, sai. Era sulla siepe dell'orto.
    Pietro guardava sospettosamente le due donne. Capiva che Nanna aveva l'intenzione di accusare sua moglie. Ma di che? Forse aveva ricevuta una strenna? Egli domandò col cuore serrato:
    - E cosa ci avete trovato nel paniere?
    - Nulla - disse Rosetta - M'è rincresciuto assai di trovarlo vuoto.
    - Cosa ti aspettavi di trovarci? Lo spillo della salumaia? - domandò Nanna con ironia.
    Gaudenzio, che aveva scoperto studiando Rosetta ch'ella non sapeva nulla dello spillo dato e respinto, a quella parole di Nanna si confermò nel sospetto già concepito contro di lei.
    Rosetta invece non indovinò la cosa, e colse l'occasione per insidiare al marito l'idea di quel dono.
    - Lo spillo non me lo potevo aspettare - disse - perché Pietro era fuori.
    - Ma che! - gridò Maddalena spaventata per la seconda volta da quel pensiero ruinoso. - Quand'anche fosse stato qui, Pietro non avrebbe potuto fare una spesa simile.
    - Che cosa ne sapete voi, se posso o se non posso? - rispose con impeto Pietro, a cui aveva fatto piacere il sentire che la moglie aspettava il gioiello desiderato solamente da lui. Ma dopo quella risposta si vergognò d'aver osato dir tanto, ed uscí dalla stalla.
    Allora Gaudenzio prese il suo posto.
    - A Novara - disse - per Natale si mette fuori dalla finestra una scarpa. Ed allora è il Bambino che porta la strenna.- Io non metto fuori piú nulla - rispose Rosetta.
    - Provate. Non avete udito, che Pietro non si sgomenta del prezzo di quello spillo? Date retta. Mettete fuori lo zoccolo. Chissà che lo spillo non venga. - E vedendo che le vecchie parlavano tra loro soggiunse a bassa voce:
    - O dal vostro uomo, o da... Gesù bambino - concluse incontrando lo sguardo di Nanna.
    Egli stava in guardia, ora che la sapeva informata di tutto; ma tuttavia persisteva a voler fare il suo dono a dispetto di lei. Faceva a fidanza sull'ambizione di Rosetta e sulle proprie attrattive.
    - Si vede che le piaccio. Sfido! Accetterà lo spillo, ed inventerà una zia, una parente qualunque per dire che gliel'ha regalato, e per poterlo portare. Le donne sono tutte cosí. Un gioiello ed un bell'uomo, e addio virtú.
    Nanna dal canto suo, aveva bisogno che quel dono si facesse, per servirsene di arma contro la cognata; e lasciava fare fingendo di non avvedersi di nulla.
    - Sí - disse; - metteremo fuori i nostri zoccoli. Questa volta ci starà anche Lucietta. Lei che è piú giovane ci porterà fortuna.
    Poco dopo uscí dalla stalla per andare a coricarsi. Pietro era seduto sulla trave nel cortile. Egli le domandò:
    - Si va a dormire?
    - Io ci vado - rispose Nanna. - Non ho nessuno che mi faccia la corte io. - Ed entrò in cucina, e di là nel forno, poi nella sua stanza, lasciando il fratello con una spina di piú nel cuore.
    Poco dopo la raggiunse Lucia che, dacché Pietro era a casa, dormiva con lei. La bimba era tutta esaltata da quell'idea della strenna.
    - Gli zoccoli si distinguono meglio dei panieri - diceva. - I miei sono verdi; i tuoi sono neri lucidi; e quelli di Rosetta sono rossi a fiori gialli. Non si possono confondere.

    La vigilia di Natale, Nanna disse a Maddalena:
    - Mamma, me la lasciate fare a me la torta per domani?
    - Possiamo farla insieme.
    - No; lasciate che la faccia io, mentre gli uomini saranno fuori per la messa della mezzanotte. Mi piace di stare alzata la sera di Natale, finché suonano le campane. Debbo dire delle orazioni lunghe.
    Maddalena non fece altre difficoltà.

    La sera andarono prestissimo nella stalla. Quasi subito giunse Gaudenzio. Gli uomini dovevano recarsi insieme all'osteria, e di là alla messa della mezzanotte.
    Lucia cinguettò tutta la sera di zoccoli e di strenne. Rosetta non osava parlare. Gli occhi del marito erano intenti su di lei, e dopo la piccola scherma di parole sostenuta colla cognata per l'affare della pezzuola, la povera sposa era sempre impaurita.
    Non aveva nulla di grave da rimproverarsi. Tra lei e Gaudenzio non esisteva nessuna intimità. Ma sentiva di volergli bene piú che non dovesse; si conosceva debole accanto a lui; aveva capita la sua intenzione di regalarle lo spillo, e non aveva il coraggio di respingerlo. E tutto codesto la turbava, e la faceva tremare dinanzi al marito come una colpevole.
    Ed il marito s'era fatto piú cupo. Il suo sguardo era pieno di sospetti e di misteri.
    Prima delle dieci gli uomini si alzarono per uscire.
    - Dunque lo zoccolo? Lo metterete fuori? - disse Gaudenzio senza rivolgersi particolarmente a Rosetta perché si sentiva vigilato da Pietro.
    - Sí - disse Lucia con entusiasmo.
    - Sí - disse Nanna fingendo la stessa animazione.
    Rosetta non disse nulla. Gaudenzio non poteva decidersi ad uscire. Pietro s'avviò pel primo; ma si fermò sull'uscio nell'oscurità. Gaudenzio, che lo credette nel cortile profittò del momento per accostarsi a Rosetta dondolandosi sui fianchi e canticchiando:
    Va là va là Pepin...
    - L'avete a mettere fuori anche voi lo zoccolo - sussurrò. E s'avviò per uscire riprendendo la sconcia canzone.
    Nanna che era accanto alla porta udí un sospiro represso, e vide Pietro che s'allontanava soltanto in quel momento, affrettandosi prima che Gaudenzio giungesse alla porta.
    - Bene - pensò. - Sospetta già qualche cosa. Mi sarà piú facile aprirgli gli occhi - e gli tenne dietro collo sguardo, e lo vide che se ne andava con passo lento, a capo chino, in atto di profondo scoraggiamento.
    In quel momento tutto il passato di quel fratello, timido, amoroso e buono, le passò nella mente come una visione. La sua ammirazione infantile per lei, la spontaneità con cui s'era offerto d'andare nelle risaie per aiutarla a guadagnarsi l'argento, le cure che le aveva prestate nella sua malattia lontana da casa, l'offerta generosa di rifarle il letto nuziale co' suoi risparmi. E provò una fitta al cuore pensando al dolore che si disponeva a recargli. Ma tutto codesto passò in un lampo. Il tempo che Gaudenzio impiegò a traversare la stalla. Rosetta usciva anch'essa. Senza interrompere la sua canzone, quando furono nel buio della porta, Gaudenzio allungò un braccio, prese Rosetta per la vita e la strinse forte, gridando a squarciagola:
    Te gh'et la donna bella
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Poi se ne andò cantando sempre, senza avvedersi di Nanna che era celata nell'oscurità.
    Quell'abbraccio fece dileguare nel cuore geloso della fanciulla tutta la pietà pel fratello.
    - Non sono io che gli faccio del male - diceva tra sé. - È questa scostumata di bellezza che si è tirata in casa. Sarà il dolore di un minuto; come strappare un dente. E poi quando l'avrà rimandata ai suoi parenti vivrà tranquillo con noi, e non avrà piú dispiaceri, ed io non avrò piú umiliazioni. Infine quello che faccio, lo faccio pel suo bene.
    Ed uscí dall'ombra, e si diresse verso la cucina. Rosetta si voltò al rumore degli zoccoli, vide che Nanna era dietro a lei, e capí che aveva assistito a quella scena di cui era ancora tutta agitata.

    In cucina Rosetta, impaziente di ritirarsi nella sua stanza, prese la lucerna che era sulla tavola. Nanna le si accostò per accendere la sua. La luce le rischiarò tutte e due in volto. Nanna fissò la cognata negli occhi; questa li abbassò. Si sentiva scrutata fin in fondo al cuore. Arrossí vivamente e salí in fretta nella sua camera. Ma Lucia la seguí gridando:
    - Dammi lo zoccolo.
    - No, lascia.
    - Sí, me lo devi dare. Sai pure che Gaudenzio ha raccomandato di metterlo tutte e tre. Via, sii buona, dammelo.
    E la piccina corse alla cassa, ne tolse uno zoccolo da festa rosso a fiori gialli, e fuggí tenendo in alto la sua conquista col braccio disteso.
    - Quella ragazza è innamorata - pensava Rosetta. - Si figura che Gaudenzio le voglia bene; ed egli fa la corte a me che sono maritata. Oh santo Dio! E nell'ottava di Natale bisognerà andare a confessarsi. Cosa ho da fare io? Non me lo posso cacciare via dal cuore, cosí come una mosca. Io non ci ho colpa. Non ho fatto nulla per volergli bene. È venuto da sé. Oh, se Pietro fosse un altro uomo! - Intanto la bimba proseguiva allegramente la sua raccolta. Scese, entrò nella stanza di Nanna, prese lo zoccolo nero lucido; poi aperse il fagotto che le teneva luogo di valigia, cavò fuori il suo zoccoletto verde, piccino piccino, e corse in cucina a schierarli sulla finestra.
    - Guarda, Nanna, come stanno bene. Ci batte sopra la luna. Si distinguono perfettamente. Il Bambino non può sbagliare.
    - Bene - disse Nanna. - Ora va a coricarti, se vuoi avere la strenna. Il Bambino non vuol essere veduto.
    - Síí! Il Bambino! È un bambino grande, quello... - rispose la fanciulletta con malizia; e si ritirò ridendo nella camera di Nanna, e si cacciò in letto, e fu ben presto rapita in sogni deliziosi di strenne, di fiori d'argento, d'amori, di nozze.

    Nanna rimase sola, e s'affrettò a porre le mani in pasta per la torta del Natale. Era agitata, convulsa. Le sanguinava ancora il cuore ogni volta che si ricordava quel gomitolo, ed il modo indegno con cui s'era cercato d'illuderla per farsi beffe di lei, in omaggio alla cognata. E lo ricordava sempre.
    - A questo modo non si va avanti - pensava. E ripeteva in sé stessa molte considerazioni sull'onore della famiglia, sulla pace del fratello; e si forzava di persuadersi che la cognata fosse una grande colpevole, per rinfrancarsi nei suoi propositi vendicativi, e per vincere un vago sgomento che l'assaliva all'idea della catastrofe che stava per suscitare.
    Quella torta dovette riescire soffice come una spugna, grazie all'energia febbrile con cui Nanna maneggiò la pasta, stirandola, battendola, ravvoltolandola in tutti i sensi.
    Finalmente suonarono le undici e mezza:
    - A momenti sarà qui - pensò Nanna. - Porterà la sua strenna prima della messa, per dar tempo a Rosetta di pigliarla avanti che torni Pietro. Ma non la piglierà. Ci sarò io prima di lei a raccogliere il fiore. E la bellezza dovrà spiegare a suo marito da che parte viene.
    Ed intanto stese la torta rapidamente, l'arrotondò, v'impresse col dito tante piccole fossette, la spolverò di zuccaro; poi si lavò le mani, e si pose in ascolto dietro la finestra del forno.

    Gaudenzio era già entrato nella siepe. Nanna lo seguí coll'occhio fino alla finestra accanto, ed il suo cuore balzava come quando era stata presa dal tifo.
    Questa volta non si affrettò ad aprir l'uscio e guizzare in cucina. Sapeva già cosa potrebbe trovare, e non voleva respingere nulla. Dal canto suo Gaudenzio, dopo aver deposto qualche cosa negli zoccoli, non ebbe premura di allontanarsi. Voleva vedere se gli respingerebbero il dono come l'altra volta. Si pose nell'ombra presso il muro tra le due finestre, ed aspettò.
    Nanna udiva il respiro affannoso del carrettiere traverso le gelosie, e reprimeva con fatica il suo. Quei due cuori battevano collo stesso impeto, nel silenzio della notte, soli, ad un passo l'uno dall'altro; ma fra i sentimenti che li agitavano c'era un abisso; dall'odio all'amore.
    - Se non se ne andasse! - pensò Nanna. Ed un momento vide rovinare tutti i suoi progetti.
    Aspettò ancora alcuni minuti. Un tempo infinito per la sua impazienza angosciosa, poi s'udí scoccare il primo segno della messa. Tese l'orecchio, ma il suono della campana le impediva di udire se Gaudenzio si movesse.
    - Pure alla messa ci deve andare - pensò. - Pietro lo aspetta, non mancherà.
    In quella una figura alta uscí dall'ombra della casa, e s'avviò rapidamente traverso l'orto alla siepe. Nanna aveva indovinato. L'innamorato correva alla messa per non destare sospetti nel marito colla sua assenza. Ella stette a guardare quel portamento baldanzoso, quel cappello sull'orecchio, finché la grande ombra ebbe varcata la siepe. Poi si nascose il volto fra le mani, e rimase a lungo assorta ne' suoi pensieri d'odio, di vendetta.
    Suonò l'ultimo segno della messa.
    - Che Natale, mio Dio! - mormorò Nanna. - Ho mai avuto tanto veleno nel cuore. Che cosa ho fatto per essere disprezzata, avvilita, come sono? Ma è venuta la mia volta. Li avvilirò anche loro e resterò io la padrona di casa.
    La campana tacque e s'udí un passo lento avanzarsi verso il cortile dalla parte del viale.
    Nanna balzò in cucina, nell'idea di impadronirsi dello zoccolo di Rosetta, e portarlo nella sua stanza, per presentarlo poi la mattina alla cognata dinanzi al marito, e dirle:
    - Ecco la strenna che ho trovato nel tuo zoccolo, chi ce l'ha posta?
    Si alzò sulla punta dei piedi aggrappandosi al davanzale della finestra, e guardò. Il suo zoccolo e quello della bimba erano pieni di chicchi; ne uscivano le carte frastagliate. Questa volta l'avevano trattata bene anche lei. Non s'era voluto irritarla. Nello zoccolo rosso e giallo di Rosetta, c'era ancora il famoso fiore in filigrana.
    Nanna alzò la mano per pigliarlo, ma in quella l'uscio della cucina venne aperto, ed entrò Pietro.
    Rimase confuso al vedere la sorella là accanto alla finestra.
    Anche Nanna fu turbata sulle prime. Non si aspettava quella venuta improvvisa, e non era preparata a fare sul momento la sua terribile rivelazione.
    Esitò un minuto; poi il suo cattivo genio le suggerí questo pensiero perfido:
    - È il Signore che lo manda perché io gli apra gli occhi. - E disse forte:
    - Stavo guardando gli zoccoli...
    Gli occhi di Pietro esprimevano una paurosa ansietà. Fece un passo verso la finestra, ma non osò andare innanzi. Si vergognava, colla sorella invidiosa, della galanteria che voleva fare alla moglie. Nella sua timidezza morbosa, sentí il bisogno di scusarsi.
    - Ho portato lo spillo per quella donna, che ne ha tanta voglia - disse senza guardare la sorella, e mettendo sulla tavola un involtino leggero. Il piú difficile era detto.
    Nanna si fece pallida di rabbia; ma Pietro senza darle tempo di parlare continuò a scusare quella gentilezza coniugale:
    - Sono sempre troppo asciutto con lei! Le metto soggezione, e non so farmi voler bene... Dacché questo fiore le fa piacere... Non mi è poi costato tanto.
    E continuava ad attorcigliare la carta dell'involto intorno al gambo del fiore, ed a tenerci intenti gli occhi, che non osava alzare per timore di scontrare quelli di Nanna.
    Era ansioso di mettere il fiore nello zoccolo e di assicurarsi se Gaudenzio non l'aveva prevenuto. E tuttavia, intimidito dalla presenza della sorella, rimaneva là seduto sulla panca presso la tavola. Neppure quel dubbio orrendo che aveva nel cuore poteva fargli vincere la debolezza della sua natura fiacca.
    - Ecco com'è amata quella sguaiata! - pensava Nanna. - È lí annientato per lei. Piú maltratta gli uomini, e piú l'adorano. Io non sono piú nulla dacché è entrata in casa. Babbo, mamma, fratello, amanti, sono tutti per lei. Ah! Se potessi schiacciarla!
    E nell'esasperazione del suo cuore invidioso attinse il coraggio feroce di dire a quel povero uomo:
    - Sei giunto tardi; ce n'è già un altro fiore.
    Un grido disperato, straziante, uscí dal petto di Pietro, e finí in un singulto che lo scosse tutto.
    Si coperse il volto colle mani, e singhiozzò disperatamente:
    - Ah! Lo sapevo che sono di troppo a questo mondo! - Ed era tutto tremante e convulso, mentre stringeva qualche cosa nella tasca del farsetto. Poi si alzò, e si avviò verso l'uscio.
    Nanna fu atterrita. In quel momento soltanto vide tutta l'enormità dell'azione che stava per commettere, lo scioglimento orribile che potrebbe avere. Ella aveva pensato soltanto a quanto desiderava lei. Ma ora vedeva che un marito innamorato e tradito non si limita a rimandare la moglie, ed a vivere tranquillamente co' parenti. È una parte della sua vita che si stacca da lui. I parenti non sono nulla dinanzi a tanto dolore.
    Le si affacciò agli occhi una scena di sangue di cui s'era parlato a lungo pochi mesi prima. Un marito geloso del proprio fratello l'aveva ucciso, poi aveva uccisa la moglie.
    Pietro nella sua profonda umiltà non avrebbe cercato di punire nessuno. Ma avrebbe ucciso sé stesso. Nanna lo indovinò dalla sua disperazione; e tutte le passioni ignobili che l'avevano esaltata si dileguarono dinanzi a quella paura.
    Tutto questo le passò come un lampo nella mente e nel cuore e, prima che avesse tempo di fare un atto o di dir nulla, una parola di Pietro la confermò nel suo pauroso sospetto. Egli si voltò nell'atto di aprir l'uscio e le disse:
    - Nanna, abbi cura dei nostri poveri vecchi!
    - Pietro, dove vai? Cosa pensi? - gridò Nanna correndo a lui.
    - Eh! A nulla; va là - disse Pietro respingendola; e poi sussurrò: - È meglio finirla che vivere a questo modo.
    Nanna ebbe bisogno in quel momento di tutta la forza del suo carattere concentrato ed energico. Capí che le suppliche non avrebbero giovato a nulla su quella natura selvatica. Bisognava distruggere il sospetto geloso ch'ella stessa aveva suscitato con tanta perfidia. Non c'era altro mezzo per combattere la risoluzione di Pietro. Fece violenza all'angoscia che aveva di dentro, e si pose a ridere sguaiatamente.
    - Ah grullo! Ci sei cascato! Ora lo so che sei geloso. Ah grullo! Ah! Ah! Ah!
    Pietro si fermò a guardarla colla bocca aperta e gli occhi sbarrati dallo stupore. L'eccitazione nervosa di Nanna era ben dissimulata dal ridere convulso. Un raggio di speranza gli rischiarò il volto di tanta espressione di conforto, che Nanna se ne sentí incoraggiata e prese a sghignazzare piú forte.
    - Ah grullo di uomo! Geloso dopo pochi mesi di matrimonio! Ah! Ah! Ah!
    - Ebbene, se sono geloso di chi è la colpa? - disse Pietro tutto confuso. - Sei stata tu a venirmi a dire delle sciocchezze, di Gaudenzio, e di quella donna...
    - Se lo dico che ci sei cascato, e che sei un grullo! Non l'hai capito che facevo apposta per farti ammattire? E tu subito a farti scorgere, a far il geloso. Stupido, va'! Dammi qui il fiore che lo metta nello zoccolo della tua donna.
    Pietro sporse il fiore, esitante, quasi inebetito tra la speranza ed il timore. Ma appena l'ebbe dato gli tornò il dubbio angoscioso, ed afferrando Nanna pel braccio le domandò a bassa voce:
    - Ma l'altro? Hai detto che ce n'è un altro. In che zoccolo l'hanno posto? - E fissandola negli occhi continuò: - Non può essere nel tuo, Nanna.
    Quest'ultima parola era crudele. Nanna ne risentí una fitta al cuore. Ma aveva veduto troppo davvicino l'orrore del male. Represse l'impeto del suo orgoglio offeso, e rispose con uno sforzo di generosità, eroico sotto la sua forma volgare e grottesca:
    - L'altro è nello zoccolo di Lucia. Ce l'ha posto Gaudenzio; che è innamorato di lei, e si confida con Rosetta. E la ragazza pure è cotta di lui. Anche questo non l'avevi capito? Che ci hai la cateratta agli occhi? Ah! Povero sciocco!
    A quelle parole i nervi di Pietro, tanto lungamente eccitati, si allentarono; abbandonò il braccio di Nanna, ricadde a sedere, e gettando sulla tavola un coltello affilato che teneva nella tasca del farsetto, disse con voce cupa:
    - Hai giocato un brutto gioco, guarda. Mi sarei ammazzato!
    E scoppiò in un pianto convulso.
    Nanna a quella vista, al pensiero ch'era stata sul punto di uccidere il fratello, fu presa da un brivido che la scoteva tutta; e per nascondere la propria agitazione andò ad aprire la finestra per mettere il fiore di Pietro nello zoccolo di Rosetta.
    Pietro la guardava con un resto di dubbio. Non poteva credere a tanta gioia.
    - Perché tremi a quel modo? - le domandò.
    - Se credi che dia gusto sentir a parlare d'ammazzarsi, e vedere dei coltelli... - E rabbrividí ancora.
    - Giura che quel fiore è nello zoccolo di Lucia; giuralo! - gridò Pietro con impeto.
    Nanna aveva già la mano sullo zoccolo di Rosetta per deporvi il secondo fiore; afferrò rapidamente il primo, lo pose nello zoccoletto della bimba, e poi disse colla coscienza sicura:
    - Lo giuro. Vieni a vedere.
    Pietro non rispose altro. Sospirò con soddisfazione, chiuse lentamente il coltello, e lo pose nel cassetto della tavola; poi rimase immobile coi pugni alle tempia guardando fissamente la tavola. Pensava forse tutte le angoscie sofferte; era ancora abbattuto, ma era calmo. Nella rettitudine del suo cuore non poteva sospettare che la sorella giurasse il falso; e dopo quel giuramento non dubitava piú. Considerava la cosa sotto un aspetto diverso. Dacché Gaudenzio era innamorato di Lucia, tutte le sue confidenze a Rosetta si spiegavano da sé. Le parlava della bimba e del suo amore.

    Rosetta, dalla finestra della sua stanza che dava anch'essa sull'orto, aveva veduto giungere e ripartire il bel Gaudenzio. Aveva aspettato trepidamente che suonasse l'ultimo segno della messa per esser sicura che tutti gli uomini fossero fuori. Nanna a quell'ora doveva aver finito di preparare la torta, ed essersi coricata.
    Era il momento buono per scendere a togliere lo spillo dallo zoccolo.
    Il rimorso e la paura le torturavano il cuore.
    - Vorrei che non l'avesse portato - pensava. - Non avrò che il fastidio di nasconderlo. E poi? Avrò un'obbligazione con Gaudenzio. Cosa pretenderà in compenso? Ah! Quel demonio di uomo è tanto bello, e sa tanto fare; non gli si può dire di no. Oh Signor Iddio benedetto! Come andrà a finire? Io voglio essere una brava donna. Mi piace di ridere; ma non voglio fare del male. Pietro non lo merita. È un po' selvatico; ma mi vuol bene, ed è buono come il pane, poveretto.
    Ed intanto scendeva pian piano, passando scalza, con quel freddo, dinanzi alla camera dei vecchi.
    Nell'aprire l'uscio della cucina rimase sorpresa di trovarci il lume acceso. Vide il marito e la cognata, e si fermò esitante non osando entrare.
    Nanna comprese che, se non l'aiutava, quella comparsa avrebbe ridestato i sospetti del fratello.
    - Oh! Qui c'è Rosetta - disse forzandosi di apparire tranquilla - Ti sta sul cuore, eh, la strenna del Bambino?
    - Oh no... - rispose Rosetta affrettandosi alla finestra, senza osare di alzare gli occhi. - So bene che non mi porterà nulla. Voglio soltanto ritirare il mio zoccolo dalla finestra. Temo che l'umido della notte lo guasti. Sta per nevicare.
    Pietro, che aveva gli occhi gonfi dal pianto, andò sull'uscio dicendo:
    - Non mi pare che voglia nevicare. E stette a guardare il cielo nell'oscurità per nascondere la sua commozione.
    Intanto Rosetta prese il suo zoccolo, e sentendoci dentro il fiore, allungò la mano per gettarlo a terra di fuori. Ma Nanna le tirò dentro rapidamente il braccio e le sussurrò:
    - Non lo gettare. È lui che ce l'ha posto. Ringrazialo. - E la spinse verso Pietro.
    Rosetta guardò la cognata, la vide commossa e rimase atterrita. Che sarebbe di lei? Che sarebbe del fiore di quell'altro?
    Intanto Pietro rientrava. Nanna spinse di nuovo la cognata verso di lui, e disse:
    - Ne vuoi sentire una buona, Rosetta? Questo povero grullo, grande e grosso com'è, aveva paura di Gaudenzio. Era geloso.
    - Ma che! Geloso! Non è vero - disse Pietro tutto confuso.
    Quanto a Rosetta, non capiva ancora. S'era fatta pallida; credeva che la cognata le preparasse una perfidia. Ma Nanna ripigliò:
    - Non istar a negarlo. Forse che non t'ho visto piangere? E questo l'avevi comperato per mandar cipolle? - E pigliato il coltello nella tavola, lo teneva alzato dinanzi a Rosetta, che rabbrividiva tutta a quella vista. Poi rivolgendosi a lei continuava:
    - Figurati! Egli credeva che Gaudenzio l'avesse con te. Come se non ci fossero altre donne che la sua a questo mondo, aveva paura che gliela mangiassero.
    - Oh! Io non penso a Gaudenzio - disse Rosa che cominciava a comprendere d'aver nella cognata un appoggio.
    - Síí! Vaglielo a dire. Ho dovuto raccontargli tutto; che Gaudenzio è innamorato della bimba, che te lo confida, che ha messo il fiore d'argento nel suo zoccoletto verde; tutto, se ho voluto che mi credesse. Ed ora si vergogna; ma non sarà tranquillo, guarda, finché non glieli fai vedere sposati. Io lo conosco.
    Pietro era sugli spilli per la vergogna.
    - Vuoi finirla? - disse con mala grazia. - Io non ci penso neanche.
    Rosetta, troppo agitata per poter parlare, saltò al collo del marito e lo baciò con trasporto, malgrado i suoi sforzi per respingerla. Si sentiva salvata.
    - Sí, sí - gli disse con uno slancio di cuore. - Lucia è innamorata, e debbono sposarsi. - E soggiunse con tutta l'espansione che le era naturale:
    - Ne sono tanto contenta! È come se mi facessi sposa io stessa un'altra volta. E voi, uomo, siete contento? - E lo abbracciò e poi abbracciò Nanna esclamando:
    - Avremo sponsali in famiglia; saremo tutti felici. - E le strinse la mano sussurrandole all'orecchio:
    - Grazie, Nanna. Mi hai proprio fatto da sorella.
    Era cosí sollevata dal sentirsi sfuggita ad un pericolo, che non dubitava del consenso di Gaudenzio, non dubitava di nulla, si sentiva riconciliata con sé stessa ed era felice.
    Nanna lasciò soli gli sposi ed uscí nel cortile. Dopo tanta concitazione provava il bisogno di piangere, e pianse a lungo in silenzio. Un profondo pentimento le era entrato nell'anima. Dinanzi alla disperazione di Pietro, alla riconoscenza sincera di Rosetta, era tornata buona, e sentiva orrore de' suoi sentimenti malevoli; e diceva:
    - Povera giovane: non ha che diciotto anni infine. Dovevo avvertirla prima, e mi avrebbe ascoltata. Ma avevo il demonio in cuore. Se gli avessi dato retta, che Natale d'inferno si sarebbe fatto in casa! Ma il Signore mi ha toccato il cuore. Quella campana di Natale mi rimescolava tutta laggiú nel forno...
    E nondimeno tremava pensando all'avvenire. Ora, nell'impressione del primo momento, sentiva tutta la dolcezza d'aver fatto del bene, ed era soddisfatta. Ma poi? Quell'entusiasmo cesserebbe. Le cose prenderebbero il loro corso abituale. Gaudenzio sposerebbe Lucia, o cesserebbe di frequentare la casa. Piú probabilmente la sposerebbe, perché Lucia s'era fatta fresca come una rosa dacché era alla cascina; era giovane, bella, aveva qualche cosuccia, e Gaudenzio era già avanti negli anni; e poi Rosetta troverebbe modo di persuaderlo per la pace di tutti.
    Pietro e Rosetta, ravvicinati da quella catastrofe, si amerebbero bene fra loro, e non potrebbero avere per la sorella vecchiotta e zitellona che un affetto secondario. Ella si troverebbe d'impaccio fra loro. I vecchi avevano poco da tirar innanzi. E lei povera Nanna, rimarrebbe ancora sola, ancora isolata, senza nessuno a cui volere tutto il suo bene, e che ne volesse altrettanto a lei. Ed allora, come farebbe a non invidiare quelli che hanno una famiglia e sono felici?
    Tornerebbe al male senza volerlo, in causa delle sue circostanze, del suo isolamento. Pensò tutto codesto con angoscia, e pianse, e pregò con fervore:
    - Oh Signore Iddio! Datemi una buona inspirazione. È la notte di Natale.

    Uscita la sorella, rimasto solo colla sposa, ed incoraggiato dalle espansioni di lei, Pietro le aveva narrato piangendo le sue gelosie, i suoi timori, la sua disperazione, ed il proposito orrendo di uccidersi.
    Erano commossi entrambi. Ed in quell'intimità infinita che lega gli sposi, in quelle prime lagrime versate insieme, si sentivano profondamente felici.
    Ad un tratto qualcuno bussò con furia all'uscio, e la voce di Pacifico gridò:
    - C'è qualcuno alzato?
    - Sí, ci sono io. - disse Pietro scostandosi in fretta dalla moglie, e correndo ad aprire.
    - Venite con me. Temo vi siano i ladri nella mia stanza, ci vedo un lume, ed ho lassú la bambina.
    I due uomini s'affrettarono su per la scala, e Rosetta, che era coraggiosa, li seguí in silenzio.
    Pacifico spinse l'uscio, e rimase immobile dallo stupore. Vide una lucerna sulla cassa ai piedi del letto; e Nanna inginocchiata accanto alla culla della bambina.
    Pietro si fece rosso come una vampa al vedere la sorella di notte nella camera d'un uomo, e le gridò con mal garbo:
    - Nanna, cosa fai qui?
    - Sto guardando il mio dono di ceppo, e ne ringrazio il Signore - disse Nanna alzandosi. - Egli s'è ricordato anche di me, sebbene io sia vecchia e brutta; e mi ha mandato questa bambolina; e mi ha dato un cuore di mamma per volerle bene. Non è vero Pacifico, che debbo essere la sua mamma?
    Pacifico nell'eccesso della gioia corse a lei colle braccia protese come per abbracciarla. Ma non osò fare quella scena davanti a tutti; e lasciandosi cadere le braccia penzoloni rimase come istupidito a guardarla a bocca aperta
    Rosetta fu la sola che comprese tutto. E colla sua espansione spontanea, abbracciò Nanna e le disse:
    - Iddio ti benedica, Nanna, per quello che fai a questa bimba, e a questo pover'uomo che ti vuol tanto bene.
    - Oh sí, per me vi voglio bene - disse Pacifico.
    - Davvero? - domandò Nanna con un lampo di gioia nello sguardo.
    - Non lo sapete forse? Non vi ho forse già domandata per moglie? Siete stata voi che non mi avete voluto.
    - Ma per la bambina, mi avete domandato.
    - Per la bambina, ed anche per me.
    - E dicevate che ero vecchiotta e punto bella... - disse Nanna con un po' d'ironia, incapace di sacrificare quel meschino risentimento alla bella parte che stava rappresentando. Appunto forse perché non rappresentava una parte, e nella sincerità dell'animo, si mostrava qual era, una donna con le sue debolezze nel bene come nel male.
    - Ebbene - rispose Pacifico senza curarsi di disdire quelle parole per cortesia, - a me piacevate cosí. Di Vecchiotte e punto belle se ne trovano tante. Ma avete ben veduto s'io ne ho cercata un'altra. Sarei stato sempre solo, guardate. - E curvandosi per non essere udito soggiunse:
    - È da quando ci trovammo in risaia che vi voglio bene.
    Rosetta capí che avevano bisogno di restar un momento soli, e dando un urto col gomito al marito, gli fece segno di uscire con lei sul balcone.
    Allora Nanna, con un'espressione di civetteria, che dissimulava male l'ansietà passionata di scoprire quanta parte d'amore le fosse ancora dato sperare da quello sposo, gli disse:
    - Mi volevate bene, e ne avete sposata un'altra?
    - L'ho sposata, perché ho dovuto sposarla, Nanna. Ora posso dirvelo, dacché lei è morta e voi sarete presto la mia donna. Quella poveretta, requie per l'anima sua, s'era trovata con mio fratello in una di quelle risaie del Piemonte dove giovani e ragazze lavorano appaiati alla trebbiatrice. E neanche i riguardi dell'onestà ci avevano in quella fattoria. Uomini e donne dormivano sullo stesso fienile. E, capite. Quei due ragazzi si volevano bene... Basta; dopo i lavori a mio fratello toccò d'andare soldato. Aveva preso le febbri in risaia e partí che non era ben guarito. Un po' di cruccio, un po' di male vite, che so io, si pigliò un tifo che lo mandò all'altro mondo in pochi giorni. Un pezzo d'uomo!... Basta; quando andai a trovarlo all'ospedale militare. mi disse:
    "Quello che mi fa piú rincrescere di morire, è quella povera Caterina. Se il suo babbo lo sa, l'ammazza, o me la mette sulla strada".
    - E piangeva che era una compassione. Io pensai soltanto a consolarlo e gli risposi:
    "Senti, Michele. Siamo sempre stati buoni fratelli; metti il tuo cuore in pace, che alla Caterina ci penso io".
    - E capite, Nanna; io avrei voluto sposare voi; ma la promessa fatta ad un moribondo si deve mantenerla. L'ho sposata io quella povera disgraziata, e le ho fatta buona compagnia; di rimorsi non ne ho; ma ho sempre voluto bene a voi.
    - Ma allora questa bambina...? Disse Nanna quasi in atto di respingere la culla.
    - Non ha piú né babbo né mamma - disse Pacifico in tono supplichevole; - ed io le ho preso a voler bene...
    - Ed io pure gliene vorrò, e sarà come se fosse nostra - mormorò Nanna curvandosi verso la bimba addormentata, e baciandola sulla bocchina socchiusa. Poi soggiunse carezzandole i bei ricci biondi:
    - E non andrà mai in risaia.

    L'indomani era una benedizione vedere tutta quella gente alla mensa di Natale. Rosetta vezzeggiava il suo ispido uomo come se lo avesse sposato allora. I vecchi erano felici di maritare la figliola. Pacifico, lasciamo stare. Era sempre a guardare Nanna colla bocca aperta, e tratto tratto le diceva:
    - Dunque sarete la mia massaia? Demonio di ragazza! Se vi siete fatta sospirare! Il letto è pronto; quand'è che comincerete a scodellare la minestra a casa mia? - Ed altre espansioni rustiche in cui metteva tutta l'anima, pover'uomo, come i loro sposi, mie belle lettrici, in un verso sentimentale.
    Gaudenzio c'era anche lui; era andato al mattino a dar il buon Natale per sentire cosa ne era stato del fiore d'argento, e Rosetta l'aveva persuaso facilmente. A conti fatti non era una passione di quelle che logorano il cuore, la sua. Aveva un capriccio per quella bella sposa; ma l'idea di sposare quel gioiello di bimba, ed innamorata poi che lo lasciava traspirare da tutti i pori, gli andò a sangue; e fu un affare concluso; tanto piú che Rosetta lo assicurò d'essere stata a sedici anni sottile come un gambo di canape. Tutta quella floridezza le era piovuta intorno dai diciassette ai diciotto. Egli si figurava la sua sposina fra un anno triplicata almeno, ed era contento, e si dondolava più che mai, e si metteva il cappello tanto sull'orecchio che era un prodigio. E Lucia era in estasi dall'ammirazione, saltava di gioia, e trionfava col suo bel fiore d'argento nei cappelli bruni. Ed esclamava contemplando il ciuffo spropositato del suo sposo:
    - L'avevo capito da un pezzo io, che parlavate sempre con Rosetta di me, e che mi volevate dare il fiore d'argento. Oh! Se l'avevo capito!
    Povero cuore innocente! Non sapeva sotto che tempeste era cresciuto il suo fiore di ceppo.


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    Merlino
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    AI BENEFICIATI

    di Robert Louis Stevenson


    Oh, Dio...
    aiutaci a rievocare correttamente
    la nascita di Gesù, che
    noi possiamo vivere nei canti
    degli angeli, nella gioia
    dei pastori, e
    nella devozione degli uomini saggi.

    Possa il mattino di Natale
    renderci felici
    di essere tuoi figli.
    [SM=x2039725]

    IL NATALE
    di Gandolin (L.A. Vassallo)

    da "LA FAMIGLIA DE TAPPETTI"




    È la mattina di domenica. Dalle nove alle undici, consulto tra Eufemia, Policarpo e Rosa, per decidere il programma del pranzo natalizio. Solamente alle undici e un quarto la lista definitiva rimane composta così, a base di patate:
    Gnocchi al sugo,
    Patate con contorno di pollo,
    Arrosto di manzo con contorno di patate,
    Patate fritte con contorno di spinaci,
    Cicoria e patate per insalata,
    Mezzo fiaschetto di Aleatico,
    Caldallesse, invece di marrons glaces troppo indigesti,
    Sei soldi di cialdoni,
    Tre mele e quattro soldi di formaggio.
    Policarpo vorrebbe aggiungere alla lista due tazze di caffè: ma resta spaventato dalla propria audacia.

    Combinato il pranzo, la famiglia De-Tappetti procede al proprio abbigliamento festivo. Agenore, col pennello da barba, insapona religiosamente una spalliera di seggiola, e ogni tanto strilla, con voce acutissima:
    - Papà, oggi che è Natale, mi ci porti al teatro meccanico?
    Policarpo fruga in ogni ripostiglio e grida:
    - Eufemia.
    EUFEMIA. - Che hai, che strilli?
    POLICARPO. - In nome di quei doveri di sposa e di madre, a cui si deve ispirare la tua condotta, mi sai dire dove diamine hai ficcato il lustro per le scarpe?
    EUFEMIA (alla serva). - Rosa: dove avete messo il lustro per le scarpe? dov'è il mio talma, quello con le perline nere?
    POLICARPO (esterrefatto). - Gesummio! Si sarebbe perduto il tuo talma! dunque la mia famiglia è sopra un abisso?
    AGENORE. - Papà oggi ch'è Natale, mi ci porti al teatro meccanico?
    Policarpo, volgendosi verso Agenore, lo vede piú che mai dedicato all'insaponatura della spalliera, e gli grida:
    - Nequitosa creatura, tu sperperi in tal modo quella schiuma che è precisamente destinata al mento del genitore? e tu mi rovini, con tanta animadversione, quella seggiola, che servì di base alla santa memoria di tuo nonno? e tu manometti con precoce impulso di brutale malvagità, quel pennello cui può solamente adibire la barba paterna?
    EUFEMIA (minacciando Agenore). - Metti subito via il pennello se no ti tiro quello che mi viene alle mani.
    POLICARPO. - Ed io quello che mi viene ai piedi, che poi sarebbe il frutto della mia legittima indignazione.
    La serva con faccia stordita, esce, tutta impolverata, dalla cucina e dice:
    - Signora, il lustro non si trova.
    POLICARPO. - Come: non si trova? Bisognerà trovarlo per forza. I miei mezzi non permettono enormi spese voluttuarie in tante scatole di lustro. Ne abbiamo comprata una, che non sono neppure tre mesi. (agitato da fiero sospetto) Ma dunque voi me lo mangiate?
    AGENORE. - Papà: oggi che è Natale mi ci porti al teatro meccanico?
    La signora Eufemia, tutta rossa, scalmanata:
    - Ecco qua: l'ho trovato io il lustro, (porgendolo a Policarpo) era fra le tue carte.
    POLICARPO (alzando il lustro e gli occhi al cielo). - Fra i miei documenti! Fra quelle pagine immarcescibili, che sono il testimonio oculare della mia integrità cittadina! (principiando a lustrare) Un giorno, di questo passo, lo troveremo nella sporta del pane, o nella concolina in cui ci laviamo le fisonomie familiari, o su quel cuscino, ch'è il capezzale delle mie notti. Eufemia: casa De-Tappetti è nella piú assoluta decadenza. (scopettando con rabbia) Agenore: lascia stare il gatto! Te l'ho detto cento volte.
    AGENORE. - Papà: l'ho mandato via perché era sullo scendiletto e stava facendo....
    POLICARPO (con amarezza). - Anche l'altro giorno era sul mio soprabito blú e fece....quel gatto non ha principio di educazione!
    AGENORE. - Papà: oggi ch'è Natale, mi ci porti al teatro meccanico?
    POLICARPO. - Quanto sei noioso e degenere, figlio mio!
    EUFEMIA (irritata). - E tu rispondigli una volta, senza farlo svociare.
    POLICARPO (al figlio). - Che vuoi? parla! e parla senza omologare di singhiozzi il tuo ragionamento.
    AGENORE. - Papà: oggi ch'è Natale, mi ci porti al teatro meccanico?
    POLICARPO (con voce solenne). - Prima di tutto, dobbiamo andare a spasso, e per via decideremo quale spettacolo convenga alla puerizia. I soli divertimenti educativi dovranno, onestamente, ricreare questo connubio nell'atto che, manoducendo la sua prole, si permetterà di gavazzare, senza intempestivo dispendio.
    Entra Rosa con un cencio nero in mano, che butta in braccio alla signora Eufemia.
    ROSA. - Ecco il talma con le perline nere.
    EUFEMIA. - Dov'era?
    ROSA. - Era.... era....
    POLICARPO. - Siate veridica nei vostri domestici referti.
    ROSA. - Io non so chi ce lo abbia messo, ma era sulla cesta del carbone.
    EUFEMIA. - Il mio talma sulla cesta del carbone!.
    POLICARPO. - Il carbone sul talma della cesta di mia consorte?
    Rosa sparisce di corsa, in cucina.
    Policarpo fissa sul talma due occhi pieni di lagrime.
    La signora Eufemia incretinisce a vista d'occhio.
    POLICARPO (con gesto pieno di nobiltà e di energia). - Mostriamoci forti e parati sempre, nelle piú dure controversie della vita. Mettiti quel talma che ci costa tanti dolori e usciamo. Nulla turbi la nostra festiva giocondità natalizia.
    La signora Eufemia eseguisce meccanicamente. Escono tutti e tre. Poca gente nelle vie.
    Policarpo trascina Eufemia, che trascina Agenore, che trascina un carrettino sfiancato mediante un pezzo di spago.
    La famiglia De-Tappetti si reca al Pincio. Sono le dodici e mezzo, e in tutto il Pincio non si vedono dieci persone. Policarpo costringe il figlio a leggere i nomi dei grandi uomini in marmo; indi gli infligge un'ammirazione di un quarto d'ora avanti ai cigni del laghetto. In ultimo dilapida la somma di tre soldi per procurargli cinque minuti d'altalena.
    Dal Pincio, la famiglia De-Tappetti corre a San Pietro. Sulla piazza non c'è anima viva. Policarpo spiega il sistema ingegnoso col quale fu eretto l'obelisco, mediante funi riscaldate, secondo lui, mentre il Papa gridava: Fuori i barbari!
    Da San Pietro, la famiglia De-Tappetti corre a piazza di Termini per vedere i cartelloni del serraglio delle belve.
    Da piazza di Termini, la famiglia De-Tappetti corre nella chiesa d'Aracoeli, dove Agenore declama la seguente poesia davanti al presepe:

    Queste feste natalizie
    Faccia il ciel che concilii
    Le sue grazie piú propizie
    Come ciò che ci ha concesso
    Dopo avercelo promesso
    Ch'apparisce alla capanna
    E nascesseci il Messia;
    Tra gli evviva tra gli osanna
    Gridiam tutti e così sia.

    Versi, manco a dirlo, di Policarpo.
    Dall'alto della scalinata dell'Aracoeli, la famiglia De-Tappetti si precipita verso casa.
    POLICARPO (con gioia repressa dalla dignità). - Che ne dici, moglie mia? ci siamo divertiti abbastanza?
    EUFEMIA (cascando a pezzi). Quanto a me....
    POLICARPO. - E tu, Agenore, ti sei divertito?
    AGENORE. - No, papà.
    POLICARPO. - Ecco le conseguenze dell'abuso dei piaceri! Agenore, ti do cinque minuti di tempo, per rettificare la tua primitiva asserzione.
    AGENORE. - Ma io mi sono seccato.
    POLICARPO. - E io, forse, non mi sono seccato piú di te? Ma oggi è festa, e tu devi imitare la paterna ilarità. Ti ordino di essere contento, e di abbandonarti a segni di giubilo manifesto. Vuoi ubbidirmi, sì o no?
    AGENORE. - Ti ubbidisco subito, papà.

    E si mette a piangere come una fontana.


    [SM=x2039724]
    NATALE SULLA TERRA
    di Arthur Rimbaud


    Dallo stesso deserto, nella stessa notte, sempre i miei occhi stanchi si destano alla stella d'argento, sempre, senza che si commuovano i Re della vita, i tre magi, cuore, anima, spirito.

    Quando ce ne andremo di là dalle rive e dai monti, a salutare la nascita del nuovo lavoro, la saggezza nuova, la fuga dei tiranni e dei demoni, la fine della superstizione, ad adorare - per primi! - Natale sulla terra!
    [SM=x2039724]


    AVE MARIA GRATIA PLENA
    di Oscar Wilde


    Questa la sua venuta? lo mi credeva
    di trovarmi davanti a un luminoso prodigio,
    quale fu narrato un tempo dal grande Iddio

    che in pioggia scese, e sbarre infranse, e sopra Danac cadde;
    o pauroso, come quando Semele, ammalata d'amore
    e desiderio inappagato, chiese di vedere
    il chiaro corpo dell'Iddio, e la fiamma

    ghermì le bianche membra e la distrusse.
    Con tali fantasie al santo luogo volsi il cammino,
    e gli occhi attoniti ora fisso e il cuore sopra
    questo supremo mistero d'Amore: un'esangue

    fanciulla inginocchiata, ignara di terrene passioni,
    un angelo che tiene in mano un giglio,
    e sopra entrambi le ali spiegate della colomba.

    [SM=x1868338]

    LE CIARAMELLE

    di Giovanni Pascoli


    Udii tra il sonno le ciaramelle,
    ho udito un suono di ninne nanne.
    Ci sono in cielo tutte le stelle,
    ci sono i lumi nelle capanne.

    Sono venute dai monti oscuri
    le ciaramelle senza dir niente;
    hanno destata ne' suoi tuguri
    tutta la buona povera gente.

    Ognuno è sorto dal suo giaciglio;
    accende il lume sotto la trave;
    sanno quei lumi d'ombra e sbadiglio,
    di cauti passi, di voce grave.

    Le pie lucerne brillano intorno,
    là nella casa, qua su la siepe:
    sembra la terra, prima di giorno,
    un piccoletto grande presepe.

    Nel cielo azzurro tutte le stelle
    paion restare come in attesa;
    ed ecco alzare le ciaramelle
    il loro dolce suono di chiesa;

    suono di chiesa, suono di chiostro,
    suono di casa, suono di culla,
    suono di mamma, suono del nostro
    dolce e passato pianger di nulla.

    O ciaramelle degli anni primi,
    d'avanti il giorno, d'avanti il vero,
    or che le stelle son là sublimi,
    conscie del nostro breve mistero;

    che non ancora si pensa al pane,
    che non ancora s'accende il fuoco;
    prima del grido delle campane
    fateci dunque piangere un poco.

    Non più di nulla, sì di qualcosa,
    di tante cose! Ma il cuor lo vuole,
    quel pianto grande che poi riposa,
    quel gran dolore che poi non duole;

    sopra le nuove pene sue vere
    vuol quei singulti senza ragione:
    sul suo martòro, sul suo piacere,
    vuol quelle antiche lagrime buone!


    [SM=x2039725]

    NUTTATA 'E NATALE

    di Salvatore Di Giacomo


    Dint'a na grotta scura
    dormeno 'e zampugnare:
    dormeno, appese a 'e mura,
    e ronfeno, 'e zampogne
    quase abbuffate ancora
    'a ll'urdema nuvena;
    e, ghianca, accumparesce e saglie ncielo,
    dint' 'a chiara nuttata, 'a luna chiena.

    Dormeno: a mezzanotte
    cchiù de n'ora ce manca;
    e se sparano botte,
    s'appicceno bengala,
    e se canta e se sona
    per tutto 'o vicenato...
    Ma 'o Bammeniello nun è nato ancora,
    e nun s'è apierto ancora 'o Viscuvato.

    Fora, doppo magnato,
    esce nfucata, 'a gente:
    ccà d' 'o viento gelato,
    p' 'e fierre d' 'a cancella,
    trase 'a furia ogne tanto...
    E c' 'o viento, e c' 'o friddo
    ncopp' 'a paglia pugnente, a ppare a ppare,
    dormeno, stracque e strutte, 'e zampugnare...


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    00 24/11/2009 18:50


    I RE MAGI
    di Gabriele D'Annunzio




    La notte era senza luna; ma tutta la campagna risplendeva di una luce bianca e uguale come il plenilunio, poiché il Divino era nato; dalla campagna lontana i raggi si diffondevano....
    Il Bambino Gesù rideva teneramente, tenendo le braccia aperte verso l'alto, come in atto di adorazione; e l'asino e il bue lo riscaldavano col loro fiato, che fumava nell'aria gelida.
    La Madonna e San Giuseppe di tratto in tratto si scuotevano dalla contemplazione, e si chinavano per baciare il figliolo.
    Vennero i pastori, dal piano e dal monte, portando i doni e vennero anche i Re Magi. Erano tre: il Re Vecchio, il Re Giovane e il Re Moro.
    Come giunse la lieta novella della natività di Gesù si adunarono.
    E uno disse:
    - È nato un altro Re. Vogliamo andare a visitarlo ?
    - Andiamo- risposero gli altri due.
    - Ma con quali doni?
    - Con oro, incenso e mirra.
    Nel viaggio i Re Magi discutevano animatamente, perché non potevano ancora stabilire chi, per primo, dovesse offrire il dono.
    Primo voleva essere chi portava l'oro. E diceva:
    - L'oro è più prezioso dell'incenso e della mirra; dunque io debbo essere il primo donatore.
    Gli altri due alla fine cedettero. Quando entrarono nella capanna, il primo a farsi innanzi fu dunque il Re con l'oro.
    Si inginocchio' ai piedi del bambino; e accanto a lui si inginocchiarono i due con l'incensi e la mirra.
    Gesù mise la sua piccoletta mano sul capo del Re che gli offerse l'oro, quasi volesse abbassarne la superbia. Rifiutò l'oro; soltanto prese l'incenso e la mirra, dicendo:
    L'oro non è per me!
    [SM=x2039724]


    SOGNO DI NATALE
    di Luigi Pirandello




    Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l'impressione d'una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l'anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors'anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.

    Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori... E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo:

    - Buon Natale - e sparivo...

    Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d'incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d'un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.

    Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l'immagine di lui m'attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m'arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.

    Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d'una luce interiore, sorvolava su un'alta siepe di rovi, che s'allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant'egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.

    Dall'irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d'una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell'immenso arco dell'orizzonte. Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.

    A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d'una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie.

    - Non dormono... - mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d'odio e d'invidia pronunziate nell'interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l'impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: - Anche per costoro io son morto...

    Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch'ero la sua ombra per terra, non mi disse:

    - Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.

    Era una chiesa magnifica, un'immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d'oro alla volta, piena d'una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l'altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d'incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d'argento splendevano a ogni gesto le brusche d'oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.

    - E per costoro - disse Gesù entro di me - sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.

    Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:

    - Cerco un'anima, in cui rivivere. Tu vedi ch'ìo son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l'anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo... Cerco un'anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d'ogn'altro di buona volontà.

    - La città, Gesù? - io risposi sgomento. - E la casa e i miei cari e i miei sogni?

    - Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari.

    - Ah! io non posso, Gesù... - feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.

    Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l'impressione sul mio capo inchinato, m'avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. E qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.


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    IL DONO DI NATALE

    di Grazia Deledda




    I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.

    Era una festa eccezionale, per loro, quell'anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.

    Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.

    E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.

    Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.

    Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d'alberi carichi di neve e di ghiacciuoli, appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole.

    Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.

    Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un'altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.

    Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.

    - Ben tornato, Felle.

    - Oh, Lia! - egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.

    Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l'amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d'occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.

    - Che ci hai, qui? - domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. - Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, - aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: - e anche noi!

    Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.

    In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con buccie di arancie e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.

    La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un'aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.

    Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.

    - Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po' di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? - pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.


    Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca.

    Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all'esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l'uomo che lo accompagnava. Quest'uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l'indipendenza d'Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista.

    E rimasero tutti scambievolmente contenti.

    Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d'oro.

    Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.

    L'ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s'intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.

    Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.

    Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.

    Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d'occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.


    Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.

    Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.

    - La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini - disse a Felle: - anch'essi hanno diritto di godersi la festa.

    Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile.

    La notte era gelida ma calma, e d'un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.

    Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.

    All'entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:

    - La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.

    Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c'erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po' triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.


    Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.

    - Oh, ragazzi, su, in fila.

    E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.

    I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.

    Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell'aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.

    Dentro la chiesa continuava l'illusione della primavera: l'altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l'ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.

    In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d'oro illuminava loro la via.

    Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.

    Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.

    - Gloria, gloria - cantavano i preti sull'altare: e il popolo rispondeva:

    - Gloria a Dio nel più alto dei cieli.

    E pace in terra agli uomini di buona volontà.

    Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.


    All'uscita di chiesa sentì un po' freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l'odore d'arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l'uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d'arancio, perché l'anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.

    Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un'asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.


    Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.

    In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d'avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l'arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.

    Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolìo della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.

    Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.


    Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?

    Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.

    Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov'era?

    - Vieni avanti, e va su a vedere - gli disse l'uomo, indovinando il pensiero di lui.

    Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.

    E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.

    - È il nostro primo fratellino - mormorò Lia. - Mio padre l'ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il "Gloria". Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.
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    NELLA STALLA DI BETLEMME

    di Charles Peguy


    Sotto gli occhi dell'asino e gli occhi del bue
    riposa il bambino nella luce pura.
    E nell'aria indorata della vecchia capanna
    gli si accendeva lo sguardo incredibilmente nuovo.

    Il bambino alzava gli occhi verso le due grosse teste
    passeggiando lo sguardo sui due monumenti.
    Vicini gli facevano inconcepibili feste
    dondolando di prua come due bastimenti.

    Dondolando il frontone come due grandi navi
    dondolando le sartie e i casseri ricurvi,
    quando il mare è bonaccia e quando i dolci zefiri
    si divertono in giochi tra i ganci delle barche.

    Il bambino alzava gli occhi verso gli enormi occhi
    più profondi e più dolci dell'Oceano enorme.
    Novizio contemplava nello specchio gigante
    la profondità dei mari e il riflesso dei cieli.

    Il bambino alzava gli occhi verso lo specchio aperto
    in cui si rifletteva la bontà di questo mondo.
    S'imprimeva un amore sopra il volto profondo
    sommerso nel riflesso dello specchio vivente.

    Il sole che passava dalle fessure enormi
    illuminava un bambino protetto da bestiame.
    Il sole che passava da un povero portone
    illuminava una greppia tra le altre greppie.

    Ma il vento che soffiava dalle fessure enormi
    può gelare il bambino che si era scoperto.
    E il vento che soffiava dal portone aperto
    può gelare nella sua greppia tra le altre greppie.

    Il bambino che dormiva con i pugni chiusi
    se i due ciambellani, se i due musi pelosi
    se le guardie del corpo, se i grossi testimoni
    non gli soffiavano sopra a riparo dal freddo.

    Sotto gli occhi dell'asino e gli occhi del bue
    il bambino respirava nel suo primo sonno.
    Le bestie calcolando dentro i due crani
    aspettavano il segno del suo primo risveglio.

    [SM=x2039724]

    CANTO DI NATALE
    di Gilbert Keith Chesterton


    Nel grembo di Maria giaceva il Bimbo
    la sua chioma era simile a una luce
    (stanco e disfatto è il mondo, ma qui tutto
    proprio tutto va bene).

    Sul seno di Maria giaceva il Bimbo
    la sua chioma era simile a una stella
    (sono astiosi e astuti tutti i re
    ma qui sinceri i cuori).

    Sul cuore di Maria giaceva il Bimbo
    ed era la sua chioma come il fuoco
    (stanco è il mondo, ma del mondo
    è questo il desiderio).

    Stava Cristo ai ginocchi di Maria
    la sua chioma pareva una corona.
    E tutti i fiori a lui guardavan su
    tutte le stelle giù.


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    Merlino
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    00 24/11/2009 19:12




    LA NASCITA DI GESÙ

    di Rainer Maria Rilke


    Se in te semplicità non fosse, come
    t'accadrebbe il miracolo
    di questa notte lucente? Quel Dio,
    vedi, che sopra i popoli tuonava

    si fa mansueto e viene al mondo in te.

    Più grande forse lo avevi pensato?
    Se mediti grandezza: ogni misura umana
    dritto attraversa ed annienta
    l'inflessibile fato di lui. Simili
    vie neppure le stelle

    hanno. Son grandi, vedi, questi re;

    e tesori, i più grandi agli occhi loro,
    al tuo grembo dinanzi essi trascinano.
    Tu meravigli forse a tanto dono:
    ma fra le pieghe del tuo panno guarda,

    come ogni cosa Egli sorpassi già.

    Tutta l'ambra imbarcata dalle terre
    più remote, i gioielli aurei, gli aromi
    che penetrano i sensi conturbanti:
    tutto questo non era che fuggevole
    brevità: d'essi, poi, ci si ravvede;

    ma è gioia - vedrai - ciò che Egli dà.
    [SM=x2039724]


    LA NOTTE SANTA


    di Guido Gozzano


    - Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
    Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
    Presso quell'osteria potremo riposare,
    ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

    Il campanile scocca
    lentamente le sei.

    - Avete un po' di posto, o voi del Caval Grigio?
    Un po' di posto per me e per Giuseppe?
    - Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
    son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

    Il campanile scocca
    lentamente le sette.

    - Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
    Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
    - Tutto l'albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
    Tentate al Cervo Bianco, quell'osteria più sotto.

    Il campanile scocca
    lentamente le otto.

    - O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
    avete per dormire? Non ci mandate altrove!
    - S'attende la cometa. Tutto l'albergo ho pieno
    d'astronomi e di dotti, qui giunti d'ogni dove.

    Il campanile scocca
    lentamente le nove.

    - Ostessa dei Tre Merli, pietà d'una sorella!
    Pensate in quale stato e quanta strada feci!
    - Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
    Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...

    Il campanile scocca
    lentamente le dieci.

    - Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?
    Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
    L'albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
    non amo la miscela dell'alta e bassa gente.

    Il campanile scocca
    le undici lentamente.

    La neve! - ecco una stalla! - Avrà posto per due?
    - Che freddo! - Siamo a sosta - Ma quanta neve, quanta!
    Un po' ci scalderanno quell'asino e quel bue...
    Maria già trascolora, divinamente affranta...

    Il campanile scocca
    La Mezzanotte Santa.

    È nato!
    Alleluja! Alleluja!

    È nato il Sovrano Bambino.
    La notte, che già fu sì buia,
    risplende d'un astro divino.
    Orsù, cornamuse, più gaje
    suonate; squillate, campane!
    Venite, pastori e massaie,
    o genti vicine e lontane!

    Non sete, non molli tappeti,
    ma, come nei libri hanno detto
    da quattro mill'anni i Profeti,
    un poco di paglia ha per letto.
    Per quattro mill'anni s'attese
    quest'ora su tutte le ore.
    È nato! È nato il Signore!
    È nato nel nostro paese!
    Risplende d'un astro divino
    La notte che già fu sì buia.
    È nato il Sovrano Bambino.

    È nato!
    Alleluja! Alleluja!

    [SM=x1868338]
    IL VECCHIO NATALE
    di Marino Moretti


    Mentre la neve fa, sopra la siepe,
    un bel merletto e la campana suona,
    Natale bussa a tutti gli usci e dona
    ad ogni bimbo un piccolo presepe.

    Ed alle buone mamme reca i forti
    virgulti che orneran furtivamente
    d'ogni piccola cosa rilucente:
    ninnoli, nastri, sfere, ceri attorti...

    A tutti il veccbio dalla barba bianca
    porta qualcosa, qualche bella cosa.
    e cammina e cammina senza posa
    e cammina e cammina e non si stanca.

    E, dopo avere tanto camminato
    nel giorno bianco e nella notte azzurra,
    conta le dodici ore che sussurra
    la mezzanotte e dice al mondo: È nato!
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